Mercalli: è l’ora di una grande alleanza per un’agenda politica pro clima
Il presidente della Società Metereologica: sui territori le associazioni ambientali si coalizzino in un “sindacato”. A livello nazionale serve un partito “forte” dei Verdi
di Silvia Cannonieri
Greta Thunberg, 16enne svedese, donna dell’anno, ha un’eco mediatica e scuote le coscienze molto più che l’associazionismo ambientalista, da 40 anni impegnato a sensibilizzare sul tema. Una perdita di mordente che ci interroga su come rilanciare il ruolo del volontariato nella lotta contro i cambiamenti climatici, anche sull’onda delle mobilitazioni ambientaliste che hanno portato le giovani generazioni nelle piazze di tutto il mondo.
Lo abbiamo chiesto a Luca Mercalli, presidente della Società Metereologica Italiana, da anni impegnato in azioni di divulgazione scientifica per lanciare l’allarme dell’emergenza ambientale e promuovere conoscenza su quanto ognuno di noi può fare per contrastarla.
La mobilitazione globale lanciata da Greta ha avuto un seguito, soprattutto nei giovani, che l’associazionismo ambientalista non ha più. Che cosa ha funzionato nella prima e che cosa non sta funzionando nel volontariato ambientale?
Il volontariato ambientale tende a creare delle nicchie che poi hanno un’etichetta, si isolano e diventano delle tribù. C’è chi è d’accordo e aderisce e c’è una grande maggioranza che non approfondisce e rifiuta un po’ a priori quel tipo di etichetta. L’ambientalismo negli ultimi trent’anni ha subìto molti luoghi comuni. Ad esempio è stato identificato, magari a torto, con la tecnica del no a tutto. Il movimento di Greta ha avuto il vantaggio di essere privo di etichette.
È nato con una persona e si è identificato con un’icona fresca e accattivante come può essere una ragazza di sedici anni. Non è passato attraverso l’etichetta della militanza ambientalista, bensì tramite un messaggio più trasversale: la difesa del futuro dei giovani.
Ma questo è solo il punto di inizio, perché il movimento dei giovani, se vuole diventare efficace, deve ricongiungersi con il mondo del volontariato ambientalista che ha più esperienza e può aiutarlo ad avere sia le basi scientifiche per portare avanti la lotta sia quelle organizzative. I ragazzi hanno dato una bella prova di consapevolezza e di interesse, ma non sono ancora organizzati per contare sul piano politico, quello dei cambiamenti effettivi della società. Mi auguro che l’associazionismo ambientalista possa cooptarli con grande delicatezza, stando attento a non cadere nell’errore di ricreare gli effetti di ieri. Deve essere qualcosa di nuovo: una maturazione da fare insieme. L’ambientalismo deve riuscire a far capire che i problemi di cui tratta sono di tutti. Purtroppo anche la stampa si è messa di traverso: ancora oggi continuo a leggere articoli nei quali i giornalisti scrivono “gli ambientalisti dicono che fa troppo caldo” e a me viene da pensare che forse loro il caldo non lo sentano. Bisogna uscire dal cliché secondo cui gli ambientalisti e il volontariato ambientale portano avanti un’ideologia: deve essere chiaro che i problemi di cui trattano riguardano tutti e devono essere passati alla società come un avvertimento, un aiuto a cambiare la nostra economia perché le conseguenze ambientali toccheranno qualsiasi persona, di qualsiasi fede politica. Anzi, dovranno portare all’elaborazione di nuove visioni politiche. L’ambientalismo può essere, potremmo dire, una sorta di terza via che superi le categorie politiche ottocentesche e proponga qualcosa di nuovo, di potente.
In una recente intervista, lei sostiene che in tanti anni di ambientalismo nessun metodo ha funzionato. Oggi non abbiamo più tempo da perdere: non ci resta che terrorizzare. Possiamo pensare ad altre strategie che il volontariato ambientale potrebbe adottare?
Non ho dichiarato esattamente questo, bensì che sinora nessuna strategia ha funzionato: né terrorizzare né minimizzare. Per capire le ragioni dell’inerzia e dell’incapacità umana di reagire in tempo agli annunci terrorizzanti che da tempo la scienza sta lanciando dobbiamo chiedere aiuto ai colleghi psicologi che forse possono fornirci delle spiegazioni. E interrogarci su come comunicarli, perché abbiamo alle spalle quarant’anni nei quali si è fallito, ma non per colpa degli ambientalisti, bensì perché antropologicamente siamo fatti così. E siccome anche le discipline sociali in questi anni hanno fatto grandi progressi, sto lavorando con psicologi, sociologi, antropologi e filosofi alla ricerca di una chiave comunicativa più efficace: gli amici delle scienze umane devono aiutarci oggi a trovare nuovi metodi per convincere le persone della gravità epocale di questi cambiamenti climatici. Con il fumo delle sigarette abbiamo visto che la strategia del terrore da sola non funziona: c’è da elaborare un codice comunicativo e delle tecniche completamente nuovi che, una volta individuati, il mondo del volontariato potrà dare una grossa mano a diffondere. Ma già adesso può fare qualcosa: il volontariato ambientale non si fa solo con una divisa addosso o andando in giro a dare multe a chi trasgredisce qualche norma, ma si fa dal panettiere, al mercato, in famiglia. Si fa aprendo gli occhi alle persone che li vogliono tenere chiusi, in tutte le situazioni.
Serve quindi una rivoluzione culturale. Perché le persone, in fondo, non sono disposte a cambiare stili di vita. Ci prendiamo cura del giardinetto sotto casa, ma non rinunciamo ad andare in macchina a lavoro. Il che equivale a dire: tutti difendiamo l’ambiente, ma deroghiamo quando è in gioco la nostra comodità. C’è un confine tra volontariato e responsabilità personale?
In teoria questo confine non c’è, ma se siamo molto lontani dalla soluzione del problema vuol dire che ancora una larga parte di persone non ha alcuna sensibilità ambientale. Per contrastare l’indifferenza bisogna informare, predicare, evangelizzare partendo addirittura dall’enciclica di Papa Francesco. A quel punto si può passare ai gradini successivi, ovvero aggiungere dati scientifici e migliorare la nostra consapevolezza. Credo però che il volontariato ambientale oggi coincida con quello che dovrebbe essere un codice di civiltà che un po’ tutti i cittadini devono imparare. Ma siccome manca, da dove si può partire? Dalla scuola, dallo Stato e proprio dal volontariato.
I temi ambientali dovrebbero essere oggetto, in modo trasversale, di tutti i percorsi formativi che le associazioni rivolgono ai volontari, in qualsiasi settore?
Assolutamente. Basta accorgersi che i problemi ambientali sono legati a tante altre cause di fragilità cui si rivolgono i molteplici volontariati; perché anche nei problemi sanitari, in quelli dei migranti, nella povertà la questione ambientale entra quasi sempre. Non sono problemi disgiunti.
L’ultima indagine Istat sulle istituzioni non profit segnala che solo il 3,2% degli oltre 5milioni di volontari in Italia è impegnato in ambito ambientale. Come commenta questo dato?
Lo prendo con sorpresa e come una forzatura di quanto abbiamo detto prima: vuol dire che dobbiamo costruire molta più informazione e consapevolezza già all’interno del mondo del volontariato. Figuriamoci tra il resto delle persone.
Con quali soggetti il volontariato dovrebbe allearsi per essere più incisivo?
Con la scienza, indubbiamente. Per essere autorevoli bisogna essere capaci di sostenere le problematiche che abbiamo identificato con i numeri e con la scienza. Non si possono dichiarare rischi e problemi senza averli verificati. Se si fanno delle battaglie, queste devono essere supportate da dati autorevoli. Il volontariato ambientale, così come quello degli altri settori, deve avere alle spalle una solidità scientifica. Spero che anche gli scienziati stessi siano dei volontari nei temi di loro pertinenza; diversamente devono essere i volontari ad andare da loro per acquisire le informazioni autorevoli.
C’è attenzione per la scienza, da parte del volontariato ambientale?
C’è, ed è soprattutto attenzione alla divulgazione. Nelle migliaia di richieste che ricevo, anche da una grandissima base di mondo associativo ambientalista locale fatto da piccole strutture, capisco che la richiesta è di conoscere meglio. C’è molta sete di conoscenza da parte della società, ma una difficoltà da parte della scienza a rendersi comprensibile. La scienza ha bisogno di farsi capire, di spiegare bene i problemi, di non trincerarsi dietro ai tecnicismi o al gergo di settore perché altrimenti ognuno parla per sé.
Pensando anche alle strutture locali, ritiene che il volontariato ambientale stia incontrando dei nuovi bisogni nell’esercizio della sua funzione? Se si, cosa potrebbe essere fatto per agevolare il suo operato?
Ho sempre trovato una grande ricchezza a livello locale, ma tutta frammentata e quindi che conta niente a livello politico. Credo sia fondamentale far convergere la dimensione locale, in cui ognuno ha la sua specificità e lotta per un problema particolare sul suo territorio, verso un obiettivo più alto. Se tutti si riconoscessero in un soggetto più grande, una sorta di “sindacato” – chiamiamolo così – dell’associazionismo ambientale, allora si potrebbe contare di più anche a livello politico. Così, oggi, siamo troppo polverizzati: il grande entusiasmo e le molte risorse che ci sono si perdono da un Comune all’altro. In uno specifico luogo c’è il comitato che lotta per una causa sacrosanta, ma dieci chilometri più in là nessuno ne conosce l’esistenza. E ce n’è un altro, che fa un’altra cosa. Ma se si mettessero insieme potrebbero continuare a lottare ciascuna per la sua causa e al contempo alzerebbero una bandierina colorata per ribadire l’urgenza di occuparsi dell’ambiente. Se ci si può contare, allora si può contare anche in ambito politico; diversamente la ricchezza che incontro quotidianamente non è efficace perché non riesce ad andare più in là delle battaglie locali, anche quando le vince. Non crea quello che dovrebbe essere un Partito Verde, che qui in Italia ha una rappresentatività ai minimi storici e quindi non intercetta le scelte politiche. Mi chiedo spesso chi votino le persone, i volontari, i ragazzi degli scioperi per il clima che incontro. Di certo non i Verdi, come abbiamo visto alle ultime elezioni. Serve oggi qualcosa che possa incidere a livello governativo per dire a gran voce che l’ambiente è una priorità per milioni di persone, non per cento qui e cinquanta là. Che sia un Partito, un sindacato o una federazione è necessario far convergere le energie verso un obiettivo culturale e politico, altrimenti non si riesce a far diventare prioritari questi problemi, che sono poi i problemi del Paese e sono sempre gli stessi. Al volontariato ambientalista serve un salto di qualità e di quantità affinché i problemi locali non restino tali, ma siano trasformati in una richiesta di alto livello in termini numerici. Perché in una democrazia se si vuole contare ci vogliono anche i numeri.
C’è qualche episodio, campagna, movimento che a suo parere è stato efficace e potrebbe fungere da esempio?
In Italia vedo tante iniziative valide su piccola scala e che potrebbero tranquillamente essere replicate: meno cemento, risparmio nel consumo di suolo, passaggio ad energie rinnovabili, riqualificazione energetica degli edifici, gestione ottimale dei rifiuti. Ma bisogna farlo nei termini che abbiamo detto sopra. Un esempio potrebbero essere i Verdi tedeschi, che sono riusciti a trasformare tutte queste sensibilità in un partito che è il secondo al governo.
GRANDANGOLO
Luca Mercalli
Non c’è più tempo
Einaudi, 2018
Luca Mercalli
Uffa che caldo!
libro per bambini
Electa, 2018
Nimbus
Rivista italiana di meteorologia, clima e ghiacciai
Società Meteorologica Italiana
(articolo tratto da Vdossier numero 1 2019)