Solidarietà non contabilità. A scuola di valutazione con il professor Zamagni
Paura del giudizio, fardello burocratico, rebus del metodo più corretto: la misurazione spaventa le associazioni. I consigli del Presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali.
di Paola Springhetti, CSV Lazio
Professor Zamagni, è davvero necessaria, per le associazioni di volontariato, la valutazione di impatto sociale?
La norma di legge non obbliga nessuno, tanto meno le associazioni di volontariato, a procedere con la valutazione di impatto sociale (VIS). Chi mette in giro bugie, lo fa perché probabilmente vuole ingenerare confusione. Neppure le imprese sociali sono obbligate a farla. Il problema è che, al di là della Riforma del Terzo settore, le fondazioni ex bancarie, le fondazioni civili e soprattutto il Fondo sociale europeo, già da un paio d’anni hanno introdotto la regola per cui, chi vuole ottenere fondi per finanziare un progetto, deve esibire, assieme al progetto, anche la valutazione di impatto sociale. Quindi il punto non è la riforma, ma i finanziatori, che sempre più, nel prossimo futuro, chiederanno questo requisito. Quindi, se le associazioni di volontariato non chiedono fondi – e in generale non li chiedono – non si devono preoccupare. Se invece chiedessero fondi, allora è evidente che, quando si avvicineranno al finanziatore o al donatore, dovranno avere la valutazione impatto.
Per le associazioni non è facile orientarsi fra le diverse metodologie di valutazione, e soprattutto devono fare i conti con quello che chiedono i finanziatori, che magari impongono lo SROI (Social Return on Investment), che prevede la valutazione in termini monetari dei costi e dei benefici
Il decreto attuativo, che traccia le Linee guida, è stato fatto proprio per aiutare le associazioni, anche quelle di volontariato, ad evitare che il finanziatore imponga delle regole proprie. Potranno appellarsi alle Linee guida, per dire che si attengono ad esse e non a quello che il finanziatore impone. È vero che ci sono finanziatori che impongono lo SROI. L’AVIS nazionale, due o tre anni fa, ha fatto una valutazione basandosi sullo SROI, ed è stato un disastro, perché aveva adottato come metrica valutativa un indicatore, che va bene, se va bene, per certe imprese sociali, ma non certo per il volontariato. Quindi, ecco perché le Linee guida lasciano alle singole associazioni di definire la propria metrica. Si limitano a fissare alcuni criteri, che sono oggettivamente accettabili da tutti, come quello della veridicità, trasparenza e rilevanza. Poi la singola metrica, cioè la scelta degli indicatori, li fissa la singola associazione.
Per questo servono competenze, e spesso le associazioni sono mal consigliate da chi dovrebbe fornirle loro
Anche gli esperti bisogna saperli scegliere. I criteri, in questo caso, sono almeno tre: primo, bisogna vedere se è competente, ma non basta; secondo bisogna vedere il suo stile di vita (se uno non ha mai fatto volontariato, come fa ad affrontare questi temi?); terzo, bisogna vedere se la sua disponibilità è in linea con lo spirito del volontariato. Ci sono persone competenti, ma si fanno pagare molto: è un brutto segnale, perché un volontario non può fidarsi di uno che si fa pagare.
Se il valore del volontariato non è tanto in quello che fa, ma nelle relazioni che costruisce, come si valuta?
Tutti sanno la differenza tra il dono e la donazione: il volontariato pratica il dono, non la donazione, che è praticata dai filantropi e può essere misurata quantitativamente. Il dono è una relazione intersoggettiva, quindi va valutato in base a una metrica qualitativa. Chi fa credere che la valutazione sia solo quantitativa è un cattivo maestro. Però la valutazione qualitativa bisogna saperla fare. Anche la bellezza è valutabile: ci possono essere due quadri d’autore, ma uno può essere mediocre e l’altro un capolavoro. L’errore è credere, o far credere, che tutto debba essere trasformato in numeri. Per questo bisogna studiare. Non servono i corsi per spiegare questa o quella tecnica, che la gente può imparare da sola, bisogna fare corsi di alta cultura, che aprono orizzonti.
(articolo tratto da Vdossier numero 2 2019)