Immigrati e rifugiati oltre gli stereotipi nella pubblicazione di Maurizio Ambrosini
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«Nei sondaggi, gli italiani sistematicamente sovrastimano il numero degli immigrati e dei richiedenti asilo. Lo stesso vale per gli aiuti che ricevono. Ma chi sono? Sono giovani maschi che contrariamente a quanto si crede, non provengono dai Paesi più poveri del pianeta, se non in minima parte, e non sono nemmeno i più poveri delle loro nazioni. Infatti, in molti casi, l’emigrazione è una strategia estrema di difesa di uno stile di vita da classe media». Maurizio Ambrosini, docente all’Università di Milano e direttore della rivista “Mondi migranti” durante il convegno “Milano città aperta”, organizzato da Ciessevi, che si è tenuto il 15 novembre, ha anticipato alcuni temi della sua ultima pubblicazione “Migrazioni”, edito da Egea nel 2017.
Il libro si rivolge a un vasto pubblico per spiegare in modo comprensibile un fenomeno complesso e controverso come quello migratorio. L’obiettivo principale è quello di porre in discussione molti luoghi comuni sull’argomento, sulla base dei dati statistici e delle ricerche sul tema. Per citarne alcuni: in Italia l’immigrazione da alcuni anni è sostanzialmente stazionaria per la lunga crisi economica; non è in corso nessuna invasione; nessuno tsunami umano si è abbattuto sulle nostre coste.
I rifugiati e richiedenti asilo, a fine 2016, sono stati 250 mila, il 5% della una popolazione immigrata stimabile in 5,5 milioni di persone. Quelli che vivono in Italia sono in maggioranza donne, europei, provenienti da paesi di tradizione culturale cristiana.
I rifugiati invece (oltre 65 milioni a livello globale) sono accolti per oltre l’80% in Paesi del cosiddetto Terzo Mondo, e comunque fuori dell’Europa. Nessun paese dell’Unione europea rientra tra i primi del mondo per numero di migranti forzati accolti, mentre troviamo nelle prime posizioni piccoli nazioni come il Libano e Paesi molto poveri come l’Uganda e l’Etiopia. Il Libano accoglie 169 rifugiati ogni mille abitanti, la Turchia circa 40, l’Italia 4.
Non è neppure vero che l’immigrazione sia strettamente legata alla povertà. In Italia, come nel resto del mondo occidentale, gli immigrati non arrivano dai Paesi più poveri, ma piuttosto da quelli di livello intermedio secondo gli indicatori dello sviluppo umano dell’ONU: nell’ordine, Romania, Albania, Marocco, Cina, Ucraina, Filippine. Per di più, gli immigrati mediamente non sono i più poveri dei Paesi di origine, ma sono meno poveri di chi rimane. I poverissimi dell’Africa, sostiene Ambrosini, raramente sono in grado di percorrere lunghe distanze e di raggiungere l’Europa. Le migrazioni internazionali sono nel mondo soprattutto una strategia delle classi medie, magari in difficoltà nel riprodurre localmente il proprio tenore di vita.
Non sfugge quindi alla critica dell’autore neppure il noto slogan “Aiutiamoli a casa loro”. A smentirlo concorre anzitutto il bisogno che le nostre economie hanno del lavoro degli immigrati: 2,4 milioni di occupati regolari, pari a oltre il 10% dell’occupazione complessiva, in crescita malgrado la crisi economica. Tecnicamente poi lo sviluppo nella prima fase suscita nuove migrazioni: più famiglie hanno disposizione i mezzi per partire, e le aspirazioni corrono più in fretta delle opportunità disponibili a livello locale. Solo dopo decenni di sviluppo durevole le migrazioni calano, finché un Paese non diventa attrattivo per gli immigrati che arrivano da aree meno sviluppate. Così è avvenuto in Italia, ma è occorso un secolo. Ambrosini peraltro non dimentica le nuove emigrazioni italiane, mai cessate del tutto ma sicuramente aumentate negli ultimi anni.
Anche l’idea radicata che gli immigrati rappresentino un peso per il welfare italiano è sottoposta all’esame dei dati: essendo gli immigrati attuali perlopiù giovani adulti, contano pochissimi pensionati e poche persone ammalate. Dunque incidono in scarsa misura sulle due voci più costose della spesa sociale. Anche se per altri aspetti gli immigrati effettivamente comportano un aumento dei costi (oltre all’accoglienza dei richiedenti asilo, soprattutto la pediatria e la scuola per i figli), alla fine il saldo per le casse dello Stato è tuttora ampiamente positivo. Semmai, avverte l’autore, si verifica uno squilibrio tra lo Stato che trae benefici e gli enti locali che sopportano costi aggiuntivi.
La dimensione familiare, le seconde generazioni, l’accesso alla cittadinanza sono dunque i veri temi del futuro, di una società italiana ormai inevitabilmente proiettata verso una composizione multietnica: 745 mila nati in dieci anni, oltre 800 mila iscritti nelle scuole nell’anno scolastico 2016-2017 sono le cifre di un’evoluzione demografica senza appello.
L’idea ottocentesca di nazione, quella esemplarmente proposta da Manzoni nell’ode Marzo 1821, “Una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor”, è destinata a essere rinegoziata, per fare posto a nuovi italiani con la pelle scura o con gli occhi a mandorla, con il velo o con il turbante.
L’analisi si sofferma infine su varie questioni sensibili: il terrorismo, la criminalità, le malattie, il pluralismo religioso, la questione islamica. Senza nascondere i problemi, il libro fornisce argomenti per smontare pregiudizi ed enfatizzazioni.
In definitiva, si tratta di un libro che arriva al momento giusto, per chi voglia comprendere meglio e discutere con ragionevolezza uno dei principali fenomeni del nostro tempo.
di Elisabetta Bianchetti