Non solo App e Internet. Lo scambio digitale fa leva sulle relazioni a tu per tu
Reciprocità, redistribuzione e mercato: una contaminazione non solo tecnologica. Per la sociologia Pais è un mondo con tanti paradossi, ma a cui guarda anche il non profit
di Silvia Cannonieri e Giuseppe Saponara
Milano,settembre 2018 – Ivana Pais, una cattedra in sociologia economica all’Università Cattolica, studiosa delle nuove forme di lavoro nell’economia digitale, come definirebbe la sharing economy? «Sulle definizioni c’è tanta confusione sotto il cielo e non esiste un’enciclopedia della sharing economy. Ci sono alcune cornici di riferimento, quali ad esempio quella data dalle istituzioni europee, con la Comunicazione della Commissione al PE “Un’agenda europea per l’economia collaborativa” (giugno 2016) e la Risoluzione del Parlamento europeo di giugno 2017. Ma anche a questo livello le definizioni sono diverse tra loro. Propongo quindi di trovare una definizione dell’economia collaborativa a partire dagli elementi che la distinguono. Primo tra tutti la componente digitale: a mio parere non possiamo parlare di sharing senza far riferimento alle nuove tecnologie. Questo significa che un’esperienza di solo coworking non è sharing. Se è vero che la piattaforma digitale rappresenta un elemento dal quale l’economia collaborativa non può prescindere, è anche vero che da sola non basta. Per spiegare in che modo una piattaforma digitale apre a una dimensione collaborativa mi rifaccio al modello del sociologo Karl Polanyi, che circa un secolo fa individuava tre forme di integrazione tra economia e società, che sono il mercato, la reciprocità e la redistribuzione.
Pur introducendo alcuni aspetti innovativi, molte piattaforme non fanno che riprodurre il modello classico di integrazione tra economia e società senza apportarvi un valore aggiunto. Ci sono piattaforme che innovano dal punto di vista del mercato, altre da quello della reciprocità, altre ancora della redistribuzione, ma senza uscire dalle logiche tradizionali. Sul fronte della contaminazione tra meccanismi di reciprocità e meccanismi di mercato, prendiamo come esempio Uber, una piattaforma di car sharing che veicola, attraverso le nuove tecnologie, un scambio di mercato nel quale a una richiesta di trasporto risponde un’attività di lavoro. Certo, la piattaforma rende lo scambio più veloce e diretto, ma senza uscire da una logica di puro mercato. Differente è invece il caso di BlaBlaCar, una piattaforma di carpooling che ha alla base il medesimo meccanismo di finanziamento (venture capital), ma introduce un modello più ibrido e collaborativo rispetto a quello di mercato. In BlaBlaCar abbiamo una persona, il conducente, che mette a disposizione di altri i posti inutilizzati della sua vettura in un tragitto che effettuerebbe comunque. Così facendo, ottimizza una risorsa di cui dispone in eccesso, condividendone le spese e introducendo delle logiche di reciprocità e di interazione sociale. E’ evidente che in questo secondo caso ci troviamo di fronte a una forma ibrida, che introduce un elemento innovativo nel modello di integrazione tra economia e società. In questo secondo caso possiamo parlare di economia collaborativa in cui la piattaforma abilita alla contaminazione tra la dimensione del mercato e quella della reciprocità. Il potenziale più interessante dell’economia collaborativa avviene quando attraverso il digitale si allarga la sfera della reciprocità e la si ibrida sia in direzione del mercato, sia della redistribuzione».
Il nome stesso della piattaforma BlaBlaCar richiama la dimensione relazionale, le parole, l’interazione tra compagni viaggio. La sharing può offrire una marcia in più alla sfera della socialità?
L’aspetto interessante dell’economia collaborativa rispetto al volontariato sta anche nel tipo di socialità che attiva, che potremmo definire “leggera”. E che il mondo del volontariato ha considerato per lungo tempo una socialità di “serie B” in quanto non riconducibile a valori di riferimento e non generativa di senso di appartenenza. Ma questa dimensione relazionale è un indiscusso valore aggiunto: come emerge da una ricerca che abbiamo condotto nel 2016 su un campione di 641 fruitori di BlaBlaCar, il risparmio e la socialità sono i due driver principali nella scelta del servizio. La dimensione relazionale rappresenta quindi, per gli utenti di Blablacar, una ragione in più per sceglierlo, per viaggiare in compagnia, anche se di sconosciuti, piuttosto che da soli. Citando la ricerca, “il servizio di carpooling, diversamente da quello di car sharing, è caratterizzato dall’elemento relazionale e l’esperienza di viaggio e la qualità del servizio si definiscono a partire da questa dimensione”. Se è vero che si tratta di una socialità “senza impegno”, è altrettanto vero che davanti a una società in cui l’interazione rischia di non esserci proprio più o di trasferirsi nel mondo virtuale, in cui l’automazione consente di acquistare beni e servizi attraverso senza alcuna interazione tra persone, forse possiamo ora guardarla con maggiore entusiasmo. Se progettata intenzionalmente, la dimensione relazionale generata dall’economia collaborativa può contribuire ad arricchire il nostro tessuto sociale.
Le piattaforme di sharing rappresentano dei propulsori di socialità tout court, oppure celano dei rischi?
Il valore generativo di una piattaforma, in termini di socialità e di fiducia, non è scontato, anzi necessita che alla base vi siano l’attenzione e l’intenzionalità di ottenere questi risultati. Le piattaforme che ibridano scambio e reciprocità hanno infatti, come tutte le cose, grandi rischi accanto a delle grandi potenzialità. In questo periodo, in cui la bolla “retorica” della sharing economy si sta sgonfiando, iniziamo a vedere gli effetti perversi che in alcuni casi si sono innescati ed è perciò possibile prevedere alcuni rischi.
Pensiamo a tutto il tema delle discriminazioni nell’accesso ai servizi. Sappiamo oggi che i meccanismi di scelta reciproca che sottendono alle piattaforme possono produrre discriminazioni anche molto forti, che non possiamo ancora contrastare. È quanto emerge da ricerche condotte su Airbnb negli Usa, secondo le quali gli host Airbnb preferiscono nettamente ospitare nelle proprie case i bianchi e risultano molto meno propensi verso gli afroamericani. Se in una logica di mercato una struttura alberghiera si deve attenere a norme antidiscriminatorie in virtù delle quali non può operare una selezione all’ingresso, un privato difficilmente può essere limitato nella libertà di scegliere chi ospitare a casa sua. La libertà individuale di scelta, in una interazione di questo tipo, è da un lato un principio importante, ma dall’altro può avere esiti pericolosi a livello macro. Questo ci insegna che nel momento in cui progettiamo sistemi di questo tipo dobbiamo stare molto attenti al tipo di dinamiche che, anche involontariamente, stiamo attivando. Se ad esempio intendiamo avvalerci dello strumento della piattaforma per promuovere opportunità di volontariato leggero, dobbiamo essere consapevoli del fatto che questo sistema potrebbe innescare dei meccanismi che non sono ancora facilmente prevedibili poiché sono diversi da quelli ai quali siamo abituati. Occorre perciò interrogarsi sui possibili rischi e sui potenziali effetti indesiderati che stiamo provocando.
Un elemento fondante dell’economia collaborativa è il meccanismo reputazionale, nel quale i giudizi dei fruitori rappresentano l’ago della bilancia. Possiamo vedere in questo fenomeno un nuovo modo di produrre fiducia tra le persone?
Di certo l’economia collaborativa introduce un nuovo elemento nei meccanismi fiduciari, ovvero quello del giudizio, dei feedback degli altri fruitori. Per alcuni studiosi, si tratta di un meccanismo che mette in circolo un’iniezione di fiducia che non può che produrre benefici a tutta la collettività. Secondo una ricerca condotta dalla NYU Stern University e BlaBlaCar, le piattaforme digitali ci stanno traghettando verso una nuova “era della fiducia”, consentendo di scalare la fiducia interpersonale, tra sconosciuti, e sprigionando così un massiccio potenziale di collaborazione.
Da un’indagine che abbiamo condotto tra i fruitori di BlaBlaCar è emerso che loro si fidano di più delle valutazioni degli altri utenti che della carta di identità del conducente. Il fatto che la piattaforma tracci, tramite un documento di identità, i dati delle persone che stanno effettuando il viaggio, quindi che sappiano perfettamente chi è alla guida di quel veicolo in quella tratta e con quel passeggero, è a loro parere meno rilevante dei giudizi delle altre persone che hanno viaggiato con quel conducente. Se andiamo a fondo, però, nelle logiche reputazionali, scopriamo che i meccanismi che abilitano tutte queste dinamiche hanno una serie di problemi. Sappiamo infatti che in tutte le piattaforme c’è un meccanismo di inflazione tale per cui i giudizi massimi sono almeno il 90% del totale. Le valutazioni dei fruitori sono polarizzate tra molti giudizi fortemente positivi e pochi molto negativi. Chi è soddisfatto del servizio generalmente dà una valutazione molto positiva, chi non è per nulla soddisfatto ne dà una molto negativa e tutta la fascia di mezzo generalmente preferisce non valutare. La cosa interessante di questi meccanismi sono quindi i non giudizi, ovvero tutta la fascia intermedia che preferisce non esporsi e non valutare. Questo sistema in qualche modo “falsa” le valutazioni, ma le piattaforme commerciali hanno tutto l’interesse a mantenerlo poiché polarizza le valutazioni verso l’alto e aumenta la spendibilità del servizio. Il funzionamento dei meccanismi reputazionali è quindi oggetto di evidenti distorsioni, che nei meccanismi più ibridi di mercato è difficile contrastare.
Un’altra pratica collaborativa è il crowdfunding. Ci può aiutare a collocarlo nel panorama della sharing economy?
Il crowdfunding introduce innovazione nel modello di integrazione tra economia e società, attraverso la contaminazione tra meccanismi di reciprocità e meccanismi di redistribuzione. E’ anch’esso uno strumento che affianca grandi potenzialità e grandi pericoli, quindi l’intenzionalità con la quale viene progettato risulta determinante per sfruttare al meglio le prime e arginare le seconde. Per stare su un esempio concreto, faccio riferimento all’esperienza del crowdfunding civico del Comune di Milano realizzata in collaborazione con la piattaforma Eppela. A seguito di un Avviso pubblico rivolto a imprese e organizzazioni non profit, il Comune ha selezionato alcune proposte progettuali sulla base del criterio esclusivo di pertinenza tematica con l’oggetto della call. Tali proposte sono state successivamente accolte sulla piattaforma di crowdfunding e il Comune di Milano ha contribuito con un cofinanziamento pubblico fino ad un massimo di 50 mila euro, per quei progetti che sono riusciti a raggiungere almeno il 50% dell’obiettivo stabilito attraverso la raccolta di micro donazioni online. Questa sperimentazione si colloca nel contesto del classico meccanismo di redistribuzione in cui il Comune dà i fondi alle associazioni, in un periodo storico caratterizzato dalla contrazione delle risorse, nel quale, non potendo dare più fondi a pioggia, le amministrazioni hanno avviato il meccanismo a bandi. Un meccanismo nel quale l’ente erogatore deve dichiarare i criteri di selezione, quindi anche di esclusione, delle proposte progettuali assumendosi la responsabilità della scelta. Il meccanismo del crowdfunding civico in questo contesto, attraverso la compartecipazione alla selezione dei progetti da sostenere, sposta sui cittadini parte della responsabilità.
L’altra questione che si pone è chi sono e cosa fanno le associazioni che partecipano a questi processi. Se nell’immaginario collettivo questi strumenti consentono il coinvolgimento di nuove associazioni, la realtà ci dice che non è così. Tendenzialmente, infatti, sono utilizzati da enti strutturati, robusti e già abituati a interloquire con le istituzioni. Una piattaforma di crowdfunding, quindi non garantisce di per sé l’apertura a soggetti nuovi e poco strutturati: per raggiungere questo obiettivo occorre compiere una serie di scelte in fase di progettazione che orientino intenzionalmente lo strumento verso una dimensione di apertura.
Un altro rischio implicito di questo meccanismo è che l’associazione stessa attivi le risorse di cui già dispone per raggiungere quel 50% di donazioni, sapendo che così si porterà a casa il restante 50%. Per ovviare a questa distorsione, sono stati introdotti alcuni correttivi, anche se molto deboli, quali ad esempio quelli che parametrano la quota di cofinanziamento concesso non soltanto sulla quota raccolta, ma anche in relazione al numero di persone attivate. Il parametro quindi non è solo il dato economico, ma anche l’interesse che il progetto é riuscito a suscitare nel territorio, attivando tante microdonazioni.
Che differenza c’è allora tra il crowdfunding, che sfrutta il modello piattaforma, e il meccanismo dei “bandi a raccolta” delle fondazioni di comunità?
Rispetto ai modelli tradizionali di raccolta fondi, il potenziale del digitale è duplice. Se effettuo una donazione con una modalità classica, ne sono a conoscenza soltanto il donatore e l’ente beneficiario. Se invece dono attraverso piattaforma e, per una qualche ragione che è stata prevista e costruita in sede di progettazione dello strumento, mi interessa comunicare questo mio gesto, la comunicazione di questa mia donazione può attivare altre donazioni. Una piattaforma di crowdfunding può innescare un meccanismo che, se giocato bene, amplifica la visibilità delle donazioni e, anche qui, consente di scalare e attivare altre donazioni attraverso un meccanismo di cascata informativa che porta anche altri a donare. Nei crowdfunding che funzionano, quindi, le donazioni partono da una base di riferimento che avrebbe dato i soldi comunque, ma attraverso l’effetto moltiplicatore che il digitale produce è in grado di raggiungere altre comunità.
Di conseguenza, e qui veniamo a un’altra potenzialità, la piattaforma di crowdfunding facilita la contaminazione tra sfere sociali diverse. Mentre una raccolta fondi all’interno di una comunità resta tendenzialmente all’interno di quel circuito, un’operazione di crowdfunding, se progettata intenzionalmente con questo obiettivo, può consentire di uscire dai confini di una specifica comunità di interesse per aprire a opportunità di incontro con altri mondi. Prendiamo ad esempio la campagna di crowdfunding realizzata per finanziare una graphic novel che nasce con l’obiettivo di costruire un immaginario di riferimento a una nuova disciplina sportiva, ideata da tre ragazzi italiani, che consiste nel combattimento con la spada laser di Star Wars. Uno sport che si è rapidamente diffuso in tutto il mondo, attraverso una rete di apposite palestre. L’idea di costruire una graphic novel che racconti le storie delle persone che praticano questa disciplina nasce dalla necessità di dotarsi di un proprio background fantastico, anche per evitare eventuali questioni di diritti d’autore. Ne scaturisce un prodotto di alta qualità, molto apprezzato dagli appassionati di fumetto. La campagna di crowdfunding ha avuto così la possibilità di raggiungere da un lato la comunità di persone che praticano il combattimento con la spada laser e frequentano le relative palestre, inserendo come ricompensa il la possibilità di diventare un personaggio del fumetto, dall’altro gli appassionati di fumetto. Altro esempio è quello della piattaforma “Rete del dono” che organizza le maratone con il personal fundraiser, ovvero un sostenitore di una specifica causa che si attiva in prima persona, avviando una raccolta fondi a favore di un’associazione in occasione di una sfida personale o sportiva, e questo avviene sempre in una logica di contaminazione tra comunità diverse. La piattaforma in questo caso serve non tanto per rafforzare la comunità di riferimento che hai già, ma per aprirla e metterla in contatto con altre. Sottolineo ancora come il raggiungimento di questo obiettivo non sia automatico in una piattaforma, ma dipende dall’intenzionalità con la quale è stata costruita.
Una terza potenzialità di questi strumenti attiene anche all’ambito della trasparenza e della tracciabilità delle donazioni. Questo potrebbe essere uno degli esiti interessanti delle tecnologie blockchain. Se abbiamo la necessità di ricorrere a questi strumenti, però, vuol dire che anche dell’intermediazione dell’associazione non ci fidiamo più abbastanza e vuol dire al contempo dare per scontato che non abilitiamo nessun altro meccanismo fiduciario se non il controllo del vedere dove vanno i propri soldi. Non possiamo quindi esimerci dall’interrogarci su quanta poca fiducia ci è rimasta oggi.
Rispetto ai possibili esiti negativi delle piattaforme di crowdfunding, vale la pena evidenziare il rischio di muovere prevalentemente finanziamenti “di pancia”. Con il crowdfunding non si riesce a finanziare l’attività ordinaria di un’associazione, o comunque quelle attività e progettualità che sono un po’ meno di moda o meno appealing. Attività e progettualità che sono comunque indispensabili per la sopravvivenza di un’associazione e costituiscono la base sulla quale è possibile andare a costruire innovazione. In questa logica, è più facile per una piattaforma di crowdfunding finanziare un bambino in Africa, più che la maestra della scuola, sebbene la maestra della scuola sia una figura di riferimento fondamentale per la crescita del bambino. Questo ci insegna che non possiamo passare solo per questi canali poiché esiste una distorsione intrinseca al modello stesso che dobbiamo tenere in considerazione. Meglio quindi integrare le progettualità e diversificare i canali di finanziamento.
Considerati potenzialità e rischi, in quali situazioni una piattaforma di crowdfunding può essere utile a un’associazione?
Partiamo da un esempio concreto, ovvero un’associazione che si occupa di disagio psichico e che, tra le principali attività, promuove una squadra di calcio femminile di donne con disabilità psichica. Questa associazione vuole sistemare il campo da calcio in cui la squadra si allena e a tale scopo ha necessità di raccogliere fondi. Quando la piattaforma di crowdfunding può essere uno strumento adeguato e quando non lo è? Se attorno al campo da calcio l’associazione sviluppa una progettualità che va in direzione di apertura, ad esempio rendendo il campetto fruibile ad altri soggetti del territorio per attivare altre collaborazioni, o per renderlo luogo di incontro per altre squadre di calcio femminile, o ancora un punto di riferimento per associazioni che promuovono attività sportive per persone con disabilità, allora il crowdfunding diventa una risorsa. Se invece il campo da calcio è uno spazio destinato ai fruitori di quella associazione, allora è più indicato sollecitare donazioni tra i genitori della squadra che già si allena in quel campetto e la loro comunità di riferimento. In questo secondo caso, una piattaforma di crowdfunding non soltanto risulterebbe poco funzionale, ma andrebbe a complicare le cose. Forse sarebbe più facile e opportuna una modalità di raccolta più relazionale e sociale.
Il crowdfunding è uno strumento potente anche se si persegue l’obiettivo di connettere le persone a interessi di nicchia che difficilmente troveranno supporto dai canali mainstream. Ad esempio, il documentario sul subbuteo difficilmente avrebbe ottenuto finanziamenti attraverso altri canali, senza una piattaforma che intercettasse le diverse comunità di appassionati di subbuteo diffuse a livello internazionale. Anche qui, è importante tenere sotto controllo i rischi, consapevoli del fatto che stiamo attivando dinamiche ambigue. Un potenziale rischio dell’utilizzo del crowdfunding per questo scopo è quello di contribuire a creare delle costellazioni di micro comunità di interesse che non comunicano tra loro.
In conclusione, questi strumenti, se opportunamente progettati, possono certamente facilitare nelle associazioni una dimensione di apertura e contaminazione tra mondi che magari possono poi tradursi in collaborazioni reali sul territorio?
Ma non c’è una ricetta, in quanto ogni storia è una storia a sé e il risultato dipende dall’intenzionalità con cui si va online, che può essere quella di rafforzare la propria comunità o di aprirsi verso l’esterno per intercettarne altre. Difficile suggerire una direzione da prendere, perché questa dipende dalla singola strategia che sta dietro. Potenzialmente questi strumenti si prestano sia per l’uno sia per l’altro obiettivo. Sono strumenti potenti, più facili ed economici di altri, ma con potenzialità ed esiti che dipendono dall’idea che c’è dietro.
Possiamo dirci però, a partire dalle osservazioni e dai numerosi elementi già raccolti, che i tempi sono maturi per passare a una fase di monitoraggio e valutazione di queste esperienze, azioni sulle quali ci si è concentrati ancora troppo poco, per capire meglio cosa stanno generando».
Per approfondire:
http://www.collaboriamo.org/media/2017/01/Report-Quando-la-sharing-economy-fa-innovazione-sociale.-Il-caso-BlaBlaCar-1.pdf