Economia collaborativa: la dottrina Orsi in sei punti con trucchi e consigli utili
L’avvocato Janelle Orsi, uno dei guru dalla sharing economy, illustra la sua ricetta di suggerimenti pratici per le Odv che vogliono condividere tra loro e con i privati
di Paolo Marelli
Milano, settembre 2018 – Consigli, trucchi e mosse da seguire. Una lezione in sei punti. Tante sono le indicazioni per le organizzazioni di volontariato che vogliono mettere in pratica la condivisione di servizi, risorse, capitale umano e beni. È questa la “dottrina” di Janelle Orsi, guru della sharing economy, una delle voci più ascoltate e influenti del pianeta collaborazione che, insieme ad April Rinne e Arun Sundararajan, forma un trio di profeti della sostenibilità e del risparmio etico per un mondo più equo, libero e democratico. Avvocato che vive e lavora a Oakland, nella baia di San Francisco, in California, Orsi detta, in un articolo scritto nel suo blog sharingsolutions.com, le nuove “regole” che gli enti del Terzo settore dovrebbero applicare se intendono fare della condivisione un trampolino di crescita e sviluppo della comunità ed ergersi a protagonisti della rivoluzione culturale in corso.
Primo: due diligence (verifica dei dati di bilancio di un ente). Secondo: accordo di condivisione. Terzo: gestione delle relazioni. Quarto: perseguimento di finalità esenti da imposta. Quinto: nessuna concessione di benefici ai privati. Sesto: rispetto delle norme fiscali. Eccoli i sei pilastri dell’insegnamento dell’avvocato Orsi. Esortazioni che rimbalzano dagli Stati Uniti a casa nostra. Una carrellata di raccomandazioni che, come lei spiega, le ha redatte sulla base e tenendo conto delle opinioni raccolte in tanti anni di consulenze. Un’attività legale che l’ha portata a lavorare con imprese sociali, organizzazioni non profit, cooperative, orti condivisi, comunità di cohousing, ecovillaggi e altri enti che svolgono lavori innovativi per cambiare il mondo con l’arma della solidarietà e condivisione. Ma non solo: questi sei principi sono anche il distillato della sua attività di cofondatrice e direttrice del Sustainable Economies Law Center di Oakland, i cui uffici offrono consulenza in materia di diritto a vantaggio della comunità locale.
Dalla due diligenze alle norme fiscali
Quelli dispensati dall’avvocato Orsi sono suggerimenti tattici e consigli pratici per un’organizzazione non profit che si accinga ad avviare un percorso di condivisione. Si comincia con la due diligence: «Prima di stipulare un accordo di condivisione, un’associazione senza scopo di lucro dovrebbe condurre una verifica dei dati di bilancio, in particolare assicurandosi che l’altra parte disponga delle risorse e della capacità fino in fondo all’intesa che si vuole siglare». In secondo luogo, occorre stipulare un accordo scritto. Questo è aspetto fondamentale perché aiuterà a garantire che le parti «rimangano responsabili e fedeli al progetto di condivisione, anche se ci dovesse essere un turnover del personale». Ma, oltre «ai tanti elementi da includere nell’accordo di collaborazione, molto importante è come annullare la condivisione, in altre parole, il piano di uscita. Nella misura in cui la condivisione colmerà delle lacune, la non condivisione ne creerà delle nuove, a meno che le parti non le pianifichino» e sappiano che cosa fare. Il terzo passaggio evidenzia, da un lato, «l’importanza di gestire le relazioni nell’ambito della condivisione, soprattutto se un’organizzazione, nel corso del tempo è riuscita a costruire una ramificata rete di contatti». Dall’altro la messa a punto di un sistema che tenga traccia di ciò che si è condiviso. L’obiettivo è di assicurare trasparenza e controlli costanti per mezzo di un monitoraggio continuo». Il quarto punto tocca il tasto dell’etica e, in particolare, il rispetto delle regole fiscali. Sebbene la normativa in materia sia differente in ogni singolo Stato, c’è un minimo comune denominatore che trasversalmente deve valere ovunque: «Mai la condivisione comporti attività che tanto si allontanino dalle finalità dell’associazione quanto si avvicinino alla ricerca di esenzioni fiscali a tutti i costi». E sulla stessa lunghezza d’onda, e sempre in nome della legalità, si posiziona anche il quinto punto: «Quando si intavola un’attività di condivisione con enti privati o aziende, un’associazione senza scopo di lucro dovrebbe fare attenzione a evitare vantaggi impropri». Tradotto: «Se qualora si verificassero delle convenienze o dei «guadagni” per privati, essi non potrebbero che essere di natura strettamente “accidentale”». Inoltre, «l’accordo di condivisione dovrebbe essere equo per le organizzazioni non profit e negoziato a condizioni di mercato», per scongiurare d’incorrere in un caso di concorrenza sleale o, per esempio, nel mancato rispetto delle normi contrattuali in materiale occupazionale e previdenziale. Ecco perché sarebbe «una buona idea assicurarsi di quale sia il “prezzo” per un’intesa con i privati e quale il giovamento per una realtà del Terzo settore». La sesta disposizione elaborata dall’avvocato Orsi concerne le detrazioni fiscali: «Nel caso qualcuno si stia chiedendo se sia corretto condividere per ottenere vantaggi erariali, la risposta è secco no».
Condivisione e difesa dell’autonomia
Oltre a scrivere abitualmente per la bibbia online della condivisione, il sito shareable.net, la Orsi è autrice anche del libro “Practicing Law in Sharing Economy” e ha firmato (“The Sharing Solution”) una guida pratica e legale per cooperare e condividere risorse di ogni tipo. Dunque una lunga esperienza frutto sia di tanti anni di ricerca che di competenze maturate sul campo, uno scrigno di conoscenze che possono aiutarci a rispondere a una serie di interrogativi sollevati sul binomio sharing-non profit. A cominciare dalla domanda se le organizzazioni di volontariato, beneficiando della condivisione, rischino o meno di perdere la propria autonomia? Risponde Orsi: «No. Anche se molto dipendente da ciò che si condivide. Per esempio, di recente ho raccolto un volantino con il quale una compagnia teatrale chiedeva un piccolo spazio da utilizzare come magazzino in una zona densamente popolata di San Francisco dove gli affitti sono alle stelle. All’ente non profit bastava una cantina, una soffitta, un locale vuoto oppure un garage per lo stoccaggio di costumi, set e oggetti di scena. Un’idea fantastica: per i donatori, era un modo per non donare tempo e denaro, e per l’organizzazione, era un posto dove riporre gigantesche teste di elefanti di cartapesta, maschere, abiti e attrezzi nel periodo dell’anno in cui non portano in giro i loro spettacoli per bambini in età scolare. Ovviamente le offerte sono state numerose. Ma cosa più importante, la compagnia teatrale ha soddisfatto il proprio bisogno e non ha smarrito ovviamente l’autonomia. E questo è un chiaro esempio di condivisione».
Tornando al cuore della questione: che dire della condivisione preservando l’autonomia e non creando intralci? «Invece di concentrarsi sulle collaborazioni in cui le organizzazioni forniscono servizi congiuntamente – risponde Orsi -, meglio focalizzarsi sulla condivisione dei costi generali e delle esigenze correlate, come le funzioni amministrative e lo spazio fisico, per suggellare i quali di solito è sufficiente non più di un accordo scritto tra le parti, quello che spesso è definito “memorandum d’intesa”. Per esempio: consideriamo un’organizzazione di difesa ambientale e un gruppo di protezione civile: entrambi potrebbero lavorare insieme. Infatti, anche se i loro obiettivi sono diversi, i mezzi per raggiungerli hanno parecchie somiglianze e offrire servizi complementari. Potrebbero condividere uffici, arredi, telefoni, computer, staff amministrativo. Potrebbero alternarsi nei picchi di attività: una parte durante il giorno e dal lunedì al venerdì, l’altra la sera e nel fine settimana. Basta poco: buona volontà, flessibilità, spirito di adattamento e collaborazione». Collaborazione che, puntualizza l’avvocato della California, non va confusa né con le fusioni tra associazioni, né con le partnership con aziende o istituzioni private.
Quel legame tra organizzazioni non profit
Tra donatori, stakeholders e fundraiser circola, tanto in Nord America quanto in Europa e in Italia, l’opinione che i fondi concessi, stanziati o raccolti abbiano «un impatto maggiore se due o più organizzazioni con missioni correlate si uniscono per raggiungere una fine a cui mirano reciprocamente», osserva Orsi. E se ciò è in parte vero, è altrettanto vero che su tale ipotesi ci sono pareri discordanti. Soprattutto su quali servizi della collaborazione debbano essere forniti e come.
L’avvocato esperta di sharing economy tiene poi a sottolineare che non va confusa la condivisione con la cosiddetta “ristrutturazione strategica”, vale a dire, in parole meno eleganti, gli accorpamenti tra due o più enti del Terzo settore. Spiega: «Le fusioni senza scopo di lucro sono diventate un argomento scottante ultimamente. Non a caso, numerosi analisti hanno predetto un boom delle fusioni senza fini di lucro. Hanno pure ipotizzato che sarebbe stata una tattica di sopravvivenza cruciale per le organizzazioni non profit. E le società specializzate nel facilitare le fusioni dichiarano di essere oggi molto più impegnate che nel passato».
Forza della vicinanza e acquisti di gruppo
In futuro invece non si esclude che peseranno maggiormente sui bilanci delle associazioni di volontariato i costi per l’affitto e la gestione di sedi, uffici e magazzini. Prezzi che si mangiano già in media un quarto delle risorse economiche di ciascuna realtà non profit. E pare una tendenza destinata a salire. Ecco perché, evidenzia Orsi, «le organizzazioni stanno condividendo sempre più lo spazio di lavoro. Così facendo, si tagliano i costi non solo di locazione, ma anche di attrezzature, utenze e personale. Questo però non l’unico modo: per esempio, un’organizzazione che distribuisce pasti gratuiti potrebbe usare la cucina di una caffetteria per colazioni benefiche. Dal momento che caffè e cappuccini si consumano al mattino, la sera i volontari potrebbero utilizzare i fornelli. Inoltre, c’è da considerare un altro aspetto: quando le associazioni condividono gli spazi si crea quella che chiamo l’impollinazione incrociata. Cioè, incubazione di idee, maggiore visibilità e, talvolta, più divertimento e coinvolgimento grazie al potere della vicinanza».
La stessa forza della condivisione degli spazi spinge Orsi a riflettere anche sulla «grande opportunità del co-working per le organizzazioni non profit, dove si mettono in comune, oltre alle scrivanie, anche competenze, energie, esperienze e l’entusiasmo di lavorare gomito a gomito con persone che gratuitamente si impegnano nel sociale e nel non profit». «Altre volte però la condivisione dello spazio e dello staff – continua – vanno di pari passo. Per esempio, le organizzazioni che condividono un ufficio potrebbero persino acquistare e usare insieme sistemi e software per computer. Altre funzioni che potrebbero essere combinate sono finanza e contabilità, marketing e raccolta di fondi». E ancora: «Un orto comunitario potrebbe condividere l’attrezzatura con un’azienda che si occupa di tutela del paesaggio. Mentre il paesaggista riposa durante il fine settimana, il gruppo di volontari giardinieri può utilizzare pale, cesoie e rastrelli per le sue attività il sabato e la domenica. Oppure le bande musicali potrebbero unire le proprie risorse e, quando non hanno in calendario concerti, prestare strumenti e spartiti ai detenuti». Una lista di esempi che potrebbe allungarsi a dismisura e che in buona sostanza mostra come, grazie alla sharing, si aprano infinite strade di collaborazione nel Terzo settore. Per l’avvocato Orsi c’è infine un altro tipo di condivisione: l’acquisto collettivo. «Le organizzazioni non profit possono anche riunirsi per negoziare collettivamente beni e servizi, al fine di ricevere più tariffe competitive e sconti per grandi quantità.
Inventario, brainstorming ed eventi ad hoc
Se il non profit si sta rivelando un terreno fertile per la sharing e se le organizzazioni possono beneficiare dei frutti della condivisione, occorre però interrogarsi su come si possa rafforzare o promuovere ulteriormente la condivisione tra le associazioni solidali. Orsi suggerisce anzitutto di «identificare le risorse e le capacità condivisibili delle organizzazioni, dato che viviamo in un mondo pieno di risorse sottoutilizzate. Le organizzazioni non profit hanno spesso armadi pieni di attrezzature inutilizzate, spazi per uffici non in uso o personale i cui talenti non sono pienamente espressi o apprezzati. Fare un inventario di queste risorse, magari attraverso un brainstorming di gruppo, è un buon punto di partenza». Poi occorre «individuare i bisogni e trovare modi condivisibili per soddisfarli: per esempio, numerose organizzazioni hanno la necessità di tagliare i costi e fare di più con meno». Per questa via sia giunge così davanti all’ostacoli più difficile da superare: «Trovare il partner giusto per avviare un percorso di condivisione». Come fare? Un aiuto a tale scopo arriva dal web. Nel Regno Unito, per esempio, opera una comunità online la VCS Collaborate che ha l’obiettivo di gettare ponti fra le organizzazioni e facilitare il processo di condivisione. Un sito simile in India è KarmaYog, che consente alle realtà non profit di pubblicare richieste e offerte al fine di collaborare tra loro. «Al di fuori di Internet – conclude Orsi -, potrebbero esserci eventi organizzati appositamente per riunire le organizzazioni non profit per discutere delle esigenze e dei modi per aiutarsi a vicenda».