Addio dialogo e confronto con partiti e sindacati. Chi decide? Solo il capo
Per Giuseppe De Rita, gli enti intermedi hanno perso il loro ruolo di mediazione: la politica dell’io cancella quella del noi. L’associazionismo? Purtroppo non riempie il vuoto
di Giuseppe De Rita, Presidente del Censis
Non mi convince più di tanto il gran parlare che da un paio di anni si fa sulla scelta politica di marginalizzazione di tutte le sedi di intermediazione sociopolitica (dai partiti ai sindacati, dalle Province, alle Camere di commercio, alle comunità Montane, ecc.); una scelta, detta in un termine andato via via di moda, di “disintermediazione”.
Ogni argomento che fa un gran parlare di sé di solito non mi convince; ma sul tema della disintermediazione, e dei relativi effetti, resto ancora meno convinto delle scelte che si vanno più o meno silenziosamente operando nella nostra dialettica collettiva.
È un tema non solo troppo trattato, e troppo genericamente; è un tema che coinvolge troppi interessi particolari e quindi difficile da ricomporre in un unitario disegno interpretativo; ma è soprattutto un tema che ha finora rifiutato un’analisi seria e profonda, sia sul piano storico che sul piano sociale. Ed invece la disintermediazione ha profondi collegamenti nell’evoluzione della storia della politica; ed ha profonde radici nella nostra struttura sociale e nel suo progressivo cambiamento. Vorrei dedicare questo mio breve contributo ad un richiamo di tali collegamenti e di tali radici.
La crisi della mediazione in politica
Nell’evoluzione della dimensione politica degli ultimi decenni il bisogno di disintermediazione, di ridurre cioè sedi e momenti di confronto e intesa fra i diversi soggetti dello sviluppo non è sorto per caso, per capriccio di qualcuno. Io ricordo bene che Craxi quaranta anni fa indicava come la grande malattia del sistema forse “quella continua mediazione democristiana che ci rende sempre prigionieri di una costante palude”; di conseguenza invocava una ripresa di responsabilità, di decisionalità, di “decisionismo” si sarebbe detto anni dopo; e registrava che per avere una decisa “botta di decisionalità” occorreva una verticalizzazione e centralizzazione del potere e che per tale verticalizzazione era necessaria anche una notevole dose di personalizzazione e di mediatizzazione della politica di vertice.
I più giovani fra i lettori di queste pagine non sono tenuti a ricordare quell’impeto “craxiano” di ormai quaranta anni fa; ma se hanno vissuto quasi quaranta anni, coglieranno la coerenza ad esso di buona parte dei protagonisti della politica italiana (da Berlusconi a Renzi a Salvini) tutti tesi al decisionismo, alla verticalizzazione, alla personalizzazione e mediatizzazione (magari con l’uso dei social) del potere e dell’azione di governo. Non mi metto qui a discutere sulla bontà di tali scelte, mi basta solo segnalare che esse erano il frutto di una intuizione politica antica nel tempo, ma destinata a imprimere una torsione pluridecennale alla logica della vita politica.
È inutile piangere sulla crisi dei “corpi intermedi”; è inutile rimpiangere la mediazione come strumento indispensabile per gestire una società complessa; è inutile combattere contro i personaggi che verticalizzano e personalizzano il potere; è inutile esprimere l’odio per la loro spregiudicata strumentazione mediatica; è tutto inutile se non si capisce che non si tratta di opzioni di puro protagonismo personale, ma di un lungo asse di progressione della cultura e della prassi politica italiana. Per invertire l’effetto non bastano proclami, bisogna ripensarlo passo per passo. Non è detto che alla fine di tale percorso si ritrovi intatto l’originario “primato della mediazione” e si ritrovino vitali molti dei soggetti da sempre deputati alla mediazione; ma solo tornando all’intuizione originale di Craxi si potrà riprendere un filo ordinato del ragionamento politico, lontano dalla tendenza dei decisionisti di vertice e dei lamenti degli “esclusi” dalle decisioni.
Una società sempre più molecolare
Accanto alle vicende storiche, che hanno determinato l’epopea della disintermediazione, ce ne sono altre, come ho scritto all’inizio, che attengono a fattori ancora più radicali e profondi, cioè alla struttura intima della nostra società ed in particolare al carattere crescentemente articolato e segmentato (“molecolare” amiamo dire noi del Censis) della composizione sociale italiana. Sono saltate tutte le appartenenze e le aggregazioni collettive (e quindi le sedi di rappresentanza e di potenziale mediazione) e ciò è avvenuto non per malignità dei potenti; ma perché la società italiana è cresciuta con una proliferazione enorme dei soggetti e delle loro soggettivistiche strategie. Sono milioni e milioni di soggetti che interagiscono in milioni di dinamiche interpersonali (di competizione e di continua innovazione), che si svolgono in ogni piega del vivere sociale. “Dappertutto e rasoterra” ho intitolato il testo in cui ho ripercorso gli ultimi 50 anni di rapporto Censis; ed è evidente che uno sviluppo socioeconomico assolutamente diffuso vive di tanti soggetti, tanta soggettività, e di tanta loro volontà di autonomia, di essere cioè protagonisti del proprio destino.
La forza e il limite dell’associazionismo
È difficile di conseguenza che essi abbiano interesse e voglia di avere rappresentanti (e tanto meno “mediatori”) da una qualche “sovraordinata” organizzazione collettiva. Di qui la crisi di quasi tutte le sedi di tipo associativo (i sindacati come i movimenti politici) di forte incardinamento nella tradizione di difesa degli interessi e di valorizzazione dell’identità: se gli interessi e le identità sono tutte di tipo soggettivo, non c’è spazio per una delega a soggetti più complessi, magari si coltiva l’utopia della democrazia diretta, dove “uno vale uno”, senza sentire il bisogno di un qualsiasi “noi”, più o meno organizzato. Resta in qualche modo fuori dal declino l’associazionismo, dove la carica di soggettività può trovare una sua valenza (i movimenti di volontariato, quelli di genere, quelli religiosi) ma con tutta l’attenzione che presto a tali forme associative, non posso non rilevare che esse non sono in questa fase capaci di coprire il vuoto intermedio che nella nostra società si è creato.
Naturalmente avremo ancora per anni un dibattito sociopolitico ricco di polemiche contro i grandi accentratori e la loro strategia di disintermediazione; e ricco di lamenti e nostalgia per il valore della mediazione e dei corpi intermedi. Ma temo che da polemiche di questo tipo non trarremo alcun giovamento: esse sono e saranno soffio di eventi, magari ristretti agli utenti dei social; ma resteremo nel guado fino a quando non avremo fatto un ripensamento storico e sociologico di una stagione politica difficile e delicata.