Cortei, digiuni e disobbedienza. Le lotte di una signora Radicale. In piazza davamo corpo alle idee
Da Bra a Bruxelles, passando per Roma e il Sud del mondo: Emma Bonino racconta com’è cambiato il fare politica dagli anni Settanta a oggi in nome dei diritti civili
di Paolo Marelli
Uno sguardo al passato per indirizzare il futuro. Dato che il presente rimbalza tra il disinteresse alla partecipazione politica e la metamorfosi del reale in virtuale con il dominio della Rete. Per guardare avanti Emma Bonino, virtuosa pasionaria dei Radicali, oggi senatrice, colei che ha raccolto il testimone della leadership da Marco Pannella, non può evitare di voltarsi indietro: ha combattuto per le donne e gli “ultimi”, è stata paladina dell’aborto e del divorzio, ha digiunato per l’Africa e la fame nel mondo, si è battuta per la libertà di diritti e valori, per la liberalizzazione delle droghe e del testamento biologico, è stata predicatrice del dialogo interlaico e nemica giurata di ogni oscurantismo. Eppure, dopo gli anni del «settarismo radicale» (copyright Massimo Teodori, uno dei fondatori del Partito radicale), ha saputo costruirsi un’immagine di un «personaggio efficiente e istituzionale». Tanto che è stata in più occasioni in predicato di salire al Quirinale come Presidente della Repubblica.
Figlia della provincia piemontese (è nata a Bra nel 1948), si sa che ha cominciato la sua militanza politica con una drammatica esperienza personale (un aborto clandestino) e con le campagne pannelliane degli anni Settanta. Una vita di sfide, una carriera da provocatrice senza ostacoli né frontiere: da Roma a Bruxelles dove è stata Commissario europeo, passando per il Sud del mondo. E oggi a Palazzo Madama, nonostante abbia vinto («Per ora», sorride) la sua battaglia più difficile contro un tumore al polmone, è ancora protagonista sul ring politico, è ancora decisa a lasciare un’impronta sotto i nostri occhi e, con metodo, pragmatismo e un pizzico di follia, ha già in mente lo scenario prossimo venturo pur continuando a rimanere profondamente se stessa.
Dai primi anni Settanta, l’epoca delle masse in piazza, quando lei ha cominciato a fare politica, sono cambiate le forme e le motivazioni della partecipazione in Italia?
Nemmeno allora non c’erano tutte queste masse in piazza. Personalmente, le folle non le ho mai viste. Basti dire che, sulla campagna per la legalizzazione per l’aborto, che è quella che ha tenuto a battesimo il mio ingresso in politica, per tanto tempo fummo un piccolo gruppetto. Eravamo soltanto noi radicali. Dopotutto l’aborto era fuorilegge e moralmente era un tabù. Tant’è che dovemmo ricorrere persino alla disobbedienza civile pur di far sentire la nostra voce. Poi ci fu la raccolta di firme per il referendum abrogativo e, solo alla fine, la legge arrivò. Ma era il 1978. Questo excursus per dire che i diritti civili non hanno mai avuto vita facile in Italia. Il nostro è sempre stato un percorso molto in salita.
Se ieri era la forza delle idee a innescare la spinta per conseguire maggiori diritti civili, era un sogno comune a smuovere le masse, oggi (nella società del sempre connessi) certamente è più facile partecipare. Non le sembra, però, che talvolta si configuri più un desiderio di esserci che non una convinzione profonda a calamitare l’interesse delle persone?
Non sono una sociologa. Forse bisognerebbe porre il quesito a qualcun altro, qualcuno più esperto di me. Dal mio punto di vista ritengo in linea generale che in questo “mondo sempre connesso”, non tutto sia positivo. Personalmente non ho niente contro le nuove tecnologie. Anzi le uso, più o meno. Ma una cosa è utilizzare uno strumento e una cosa è divenirne dipendente. E le dipendenze non sono mai foriere di positività, non hanno mai fatto bene a nessuno: c’è chi è incollato alla televisione dalla mattina alla sera, c’è chi non stacca mai gli occhi dallo smartphone. Tornando al tema della partecipazione, nella Rete intravedo degli elementi di spersonalizzazione della politica. Ieri c’era un uso maggiore del corpo, contava l’esserci. C’erano il manifestare, il protestare, le raccolte firme. C’era l’esposizione in prima persona. Oggi non è più così. La formula più usata è di essere ognuno dietro al piccolo schermo di uno smartphone, o attaccato a un tablet, dove la militanza, la passione, l’impegno per la politica spesso si riducono a un click. Il risultato non è incoraggiante: uno pensa che, siccome ho fatto click su una proposta, in qualche modo ha esaurito il suo impegno politico. In verità è un po’ poco e non è esattamente molto positivo.
Internet e i social network minano le forme di partecipazione alle battaglie odierne della politica?
Più che minarla, la sviliscono. Perché, appunto, in tanti stimano che basti un click. Senza dimenticare che altri usano queste tecnologie non tanto per un dibattito di idee, quanto più per esternare insulti e offese, più o meno volgari. O commenti più o meno pertinenti e fondati. La Rete spiana poi la strada ai tuttologi, i quali proprio perché tali sono per lo più degli incompetenti. Ecco, quindi, un altro elemento negativo del web e di una partecipazione politica più liquida, più leggera, che ha perso la sua profondità, il suo peso specifico. Sono convinta che si tratti di una questione di esposizione individuale. Sostengo che la partecipazione in modo diretto ed esplicito sia uno strumento più valido. Meno manipolante, diciamo.
Una migliore qualità della partecipazione è sempre sinonimo di una migliore qualità della democrazia?
Sì, certamente: l’equazione è esatta. Ma soprattutto di maggiore responsabilità dei cittadini. E, quindi, della qualità di una democrazia che su questo assunto si basa. La democrazia non può essere un “Like”, la democrazia non può essere edificata online. Perché in Rete non si capisce chi controlla chi e chi decide cosa. L’impegno politico non è un “Mi piace”, un “condivido”. Dobbiamo riportare le persone nelle piazze, recuperare una fisicità che sta sparendo. Non c’è più dialogo: alcune sere fa ero in pizzeria con amici. C’erano tre famiglie ai tavoli, con figli adolescenti. Non hanno pronunciato una parola. Tutti chini sul cellulare. Non c’era partecipazione. Uno specchio dei tempi che non mi piace.
Una volta ha dichiarato: «In politica mi sono giocata la salute: sette denti persi dopo uno sciopero della sete e decine di anni di vita». Ha digiunato, si è incatenata, è finita anche in carcere: si è mai pentita delle scelte fatte?
No, rifarei tutto. Ne è valsa la pena. Non ho rimpianti, la politica radicale è la mia passione. E poi mi sono sempre divertita, sin dall’inizio, con Marco Pannella. Non mi dimenticherò mai una frase che mi disse una volta, anche se all’inizio non l’avevo capita tanto: “Se vuoi che una cosa non si sappia, hai un unico modo. Non farla”. Queste parole rappresentavano il suo spirito libertario coltivato nella legalità. I giovani lo adoravano. A me invece mancano le litigate con Marco perché a parte la diversità di carattere, formazione e generazione, il rapporto era difficile, ma lo abbiamo entrambi voluto, quindi governato. Però quello che mi manca è soprattutto la capacità di Marco di non essere mai mediocre, ho sempre pensato che mentre io tendo un po’ a sedermi lui era la mia polizza vita contro la mediocrità.
In un periodo storico come l’attuale, contraddistinto anche da fenomeni negativi (astensionismo, corruzione, disimpegno verso la politica, sfiducia nei confronti dei politici e degli amministratori locali) che cosa occorrerebbe fare per invertire la rotta?
Difficile a dirsi. Per quello che possiamo fare, resistiamo a tale tendenza. Noi tiriamo dritto, proseguiamo per la nostra strada, con strumenti come l’iniziativa popolare, la raccolta di firme, l’essere in piazza. Vogliamo continuare a “dare corpo” alle nostre idee e alle nostre proposte. È il nostro muro di sbarramento a questa deriva pericolosa. Inoltre, proviamo a resistere usando anche la tecnologia, ma senza farci completamente assorbire dalla Rete e senza diventarne dipendenti. Poi come altro si possa fare, a essere sincera, non lo so. Di sicuro ritengo che per sconfiggere questi “mali” che ci affliggono, occorra lavorare anzitutto con le giovani generazioni. E un luogo ci sarebbe: la scuola. Le aule sarebbero una giusta sede per discuterne e per avviare una riflessione. Anche sulla partecipazione, la rappresentanza, la democrazia.
Eppure pare che siano proprio i giovani a voltare le spalle alla politica e alle urne quando ci sono le elezioni.
È vero, purtroppo. E mi dispiace. Un giorno ero però a un incontro con degli studenti, ho fatto loro un bel discorsetto, che spero se lo ricordino.
Cioè?
Quando ero commissaria europea, sono andata in Africa e ho visitato l’ospedale di Freetown, capitale della Sierra Leone. Nelle corsie non c’era un paziente con tutti gli arti: tutti non avevano chi un piede, chi una mano, chi una gamba o chi un braccio. Glieli avevano amputati. Quei giovani si battevano per libere elezioni, erano stati mutilati dai movimenti antielettoralisti. Morale? Cari ragazzi italiani, voi non siete stati bravi a nascere in Italia. Non siete stati talentuosi a vivere in una famiglia che vi compra i vestiti e vi manda a scuola. Avete avuto solo fortuna. Il minimo che possiate fare è assumervi qualche responsabilità, compresa quella di votare.
Alle elezioni politiche di quest’anno, a marzo, l’affluenza in Italia è stata del 72,93% per la Camera dei deputati e del 72,99% per il Senato. Il risultato è l’attuale alleanza di Governo Movimento 5 Stelle e Lega, figlia di due partiti che hanno forme di partecipazione opposte, seppur convergenti: la Lega è radicata sul territorio con comizi, gazebo, feste di partito e amministra numerosi enti locali; i Cinquestelle invece hanno una partecipazione “virtuale”, con la Rete come fabbrica di democrazia. Ritiene che queste forme, o almeno una di esse, siano rappresentative della partecipazione democratica di oggi e di domani?
Sono due forze politiche che nascono da mondi e da esperienze diverse. Io non ho grandi apprezzamenti sull’ideologia della Rete, della democrazia diretta e della democrazia online. Per esempio, di recente la coppia Grillo-Casaleggio diceva che, deducendo che uno vale uno, tanto valeva individuare i parlamentari per sorteggio. Uno scenario che mi spaventa. Dall’altro lato, Matteo Salvini ha una forma più tradizionale di mobilitazione confondendo però il ruolo istituzionale di ministro e vicepremier con il ruolo di leader di un partito. Sta più alle feste della Lega sul territorio, tiene continuamente comizi, invece di vestire i panni di titolare del Viminale. A osservare la sua pratica quotidiana, mi pare che per Salvini siamo in una campagna elettorale permanente. E, per sua stessa ammissione al raduno di Pontida, è cominciata e mai finita. Lui guarda già alle elezioni europee come prossimo appuntamento dell’agenda. Ma il Governo mi sembra impegnato in una campagna elettorale senza sosta. O quantomeno i due vicepresidenti, Di Maio e Salvini.
Come si possono sconfiggere il disinteresse verso la politica e l’astensionismo alle urne?
Non vedo tutto questo disinteresse rispetto ad altri Paesi. Quando ci guardiamo intorno, il nostro tasso di astensionismo alle urne è quasi fisiologico. Però è anche vero che appena è indetta una manifestazione, la partecipazione resta alta. Certo, molto dipende dal tema e da chi la organizza. E forse, malgrado questa ubriacatura da social, il desiderio di essere presenti, rimane ancora.
Lei non vede una differenza rispetto al passato?
Certo che la vedo. È sotto gli occhi di tutti ormai. Però mi sembra che, quando le manifestazioni sono convocate da grandi organizzazioni, la partecipazione c’è ancora. La voglia di esserci in piazza, da buona parte dell’opinione pubblica, è ancora viva. Poi è chiaro che web e social tendano a esaltare l’attività solitaria, l’individuo anziché il gruppo, tanto per la riflessione quanto per l’insulto, sia per l’adesione sia per la contestazione. Ripeto: il “Mi piace”, la condivisione di un post, magari fatto di notte, è una partecipazione a metà, anche perché un cittadino ritiene con un click di aver esaurito il suo impegno politico.
È per questa ragione che i partiti perdono iscritti?
Credo che la crisi dei partiti dipenda da altro. È più di sostanza. Internet e i social l’ha sicuramente esasperata. Ma non sono la causa. Lo provano i Cinquestelle: al Movimento di Grillo basta la Rete. E governano dall’alto del loro 32,2 per cento di consensi ottenuti alle elezioni politiche di quest’anno. Eppure il M5S non organizza mai manifestazioni. Ha una forma di partecipazione non tradizionale. Questo è certo. Dopotutto i pentastellati sostengono anche la teoria per cui il Parlamento non serva più in futuro. La loro è l’esaltazione della cosiddetta democrazia online.
La crisi del Pd e, più in generale, della Sinistra come la valuta?
È la crisi di chi ha perso la possibilità di governare dopo qualche anno. E adesso si trova all’opposizione. Sta attraversando in modo piuttosto confuso questo periodo di cambiamento radicale. Non so come, ma deve reimparare a fare opposizione. Un ruolo che in democrazia è altrettanto importante quanto essere al governo. Quella della Sinistra in Italia è una crisi tutta politica, non è una crisi di partecipazione, legata alla forma-partito, o all’avanzare della tecnologia.
Nel maggio 2019 si terranno le elezioni per il parlamento di Strasburgo, come giudica la partecipazione dei cittadini alla politica dell’Europa? Perché l’Ue appare sempre distante?
Per il cittadino appare distante persino Roma. Quante volte ho sentito ripetere “Roma non si occupa di noi”, oppure “Roma è lontana”. Lo stesso vale per Bruxelles. Per altro, con una conoscenza delle istituzioni e delle pratiche europee molto scarsa. Questo è sicuro. Noi diciamo Europa e intendiamo quel che a ciascuno piace di intendere: confondiamo l’Europa intergovernativa dei Capi di Stato e di Governo con quella comunitaria. Inoltre facciamo spesso ricorso a un linguaggio generico. Ma così non si aiuta nessuno a capire le istituzioni europee e chi possa fare che cosa. Come dire, ognuno si alza la mattina e pensa all’Europa che piacerebbe a lui, in quel preciso momento. Da qui, l’appello all’Unione europea affinché si occupi dei migranti. Una richiesta senza senso, perché è una cosa che per altro la Ue non può fare.
Perché no?
Perché le politiche immigratorie sono rimaste politiche nazionale per stessa volontà degli Stati membri dell’Ue. Oppure si guarda a Bruxelles e si chiede che non imponga vincoli economici, che non si occupi dei conti in disordine dei singoli Stati che ne fanno parte. Insomma, si dice tutto e il suo contrario.
Uno scenario confuso che però fa tremare la stessa Unione europea?
Sì perché, da una parte, c’è chi pretende di più dall’Ue su alcune questioni e allo stesso però vuole meno su altre. La conseguenza? Vedo una campagna che va avanti in tanti Paesi da molto tempo: Bruxelles come capro espiatorio di qualunque loro problema. E l’Italia sta seguendo esattamente questa linea, è sintonizzata su questa linea di frequenza. Per cui il rigore finanziario sancito da accordi, oppure il nodo migranti, sono utili capri espiatori di problemi che invece sono tutti italiani. Un altro esempio? Il nostro debito pubblico che, tanto per intenderci, non ce l’ha imposto l’Europa. Ce lo siamo fatti da soli. Per giunta con grande spensieratezza. Adesso ci troviamo questo grosso macigno che lasceremo in eredità alle future generazioni che, a loro volta, non saranno affatto contente di ricerverlo. Perciò la visione che abbiamo dell’Unione europea è confusa e superficiale. Ecco perché la partecipazione alla politica europea è evanescente e priva di interesse per i cittadini.
Se potesse rivolgersi a un diciottenne, che cosa gli direbbe affinché partecipi alla vita politica e civile nella sua città? Oppure per impegnarsi nel volontariato come forma di partecipazione alla cittadinanza attiva?
Gli direi di farlo. Il volontariato è un elemento di forza della nostra società ed è una forma di partecipazione alla vita della società civile. Lo vedo nel settore che seguo di più, quello dei migranti e rifugiati. È sicuro che la rete di cittadini, anche giovani, impegnati in varie associazioni e in vari aspetti di questo tema complesso, è un elemento molto importante da coltivare.