Virali e iperconnessi non paga. Conviene puntare sulla lentezza. Perché la mobilitazione è slow
Il volontariato si interroga sul digitale come strumento per aumentare la partecipazione. La ricetta controcorrente del professor Marangi: scommettete sull’attivazione tra pari
di Matteo Ripamonti
La suggestione della Rete come fucina digitale per la democrazia del futuro è oggi molto diffusa. Tuttavia il rischio di fraintendimenti è grande. Ecco perché è quantomai cruciale fare chiarezza su una questione così delicata. Abbiamo chiesto al professor Michele Marangi, media educator, membro del Cremit (Centro di ricerca sull’educazione ai media all’informazione e alla tecnologia) e docente all’Università Cattolica di Milano in Tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento, che cosa si intende oggi per democrazia elettronica: «La domanda è più complessa di quanto sembri, rispondo semplificando un po’ le cose. Sul piano teorico ci si può riferire al concetto di democrazia digitale, intendendo le possibilità di espressione, formazione, aggiornamento e scambio che ciascuno di noi ha oggi grazie al web. Il digitale ha abbassato moltissimo la soglia di accesso alla produzione di contenuti portandola, almeno teoricamente, alla portata di chiunque. L’esperienza quotidiana tuttavia ci insegna che la democrazia digitale non è affatto spontanea. Il digitale è un mercato che muove miliardi, pertanto tutte quelle piattaforme che consentono una connessione libera e gratuita, in realtà, sono gestite secondo logiche economiche orientate al massimo profitto. L’effetto è quello che già nel 2011 Eli Pariser definiva filter bubble quel fenomeno per cui, seppur teoricamente, noi potremmo comunicare con tutti, ci rivolgiamo di fatto quasi esclusivamente ad una platea di soggetti che tende a pensarla come noi. Questo, non per mancanza di buona volontà o di competenza digitale del singolo, ma perché i sin troppo famosi “algoritmi” che regolano il funzionamento delle piattaforme digitali tendono a metterci in contatto con quei soggetti, quelle informazioni e quei materiali digitali che abbiamo selezionato come di nostro gradimento.
Questo ragionamento, certamente molto semplificato ed estremizzato, ci mette davanti a due poli: le enormi potenzialità di libero scambio offerte dal digitale e il rischio di autoreferenzialità insito in un uso ingenuo di questi strumenti.
La democrazia digitale intesa come partecipazione, trasparenza, e rappresentatività rimane dunque solo una teoria?
Dipende da come mi approccio al digitale, da come so utilizzarlo e dominarne le dinamiche. Faccio un esempio banale: l’automobile di per sé è una tecnologia, quanto il digitale, e come tale non è intrinsecamente buona o cattiva, mi permette delle cose e mi crea dei problemi per altre, tutto sta nell’utilizzo che ne faccio. Il problema è che spesso il digitale viene ridotto a una competenza tecnica o tecnologica da apprendere. L’elemento chiave sarebbe un approccio pedagogico al digitale, ovvero mettere in campo una formazione metodologicamente orientata ai processi e non alla tecnica, al come utilizzare gli strumenti digitali per creare reti, e non soltanto network. In altre parole dalle forme tecnologiche del digitale, per sviluppare una riflessione su ciò che significa comunicare oggi. Non capire questa cosa vuol dire regredire a una comunicazione appiattita sulle dinamiche economiche delle piattaforme commerciali.
Il digitale ha un ruolo nell’indifferenza diffusa che oggi contraddistingue i comportamenti sociali?
Sul piano puramente fenomenologico questo è un dato di fatto: oggi siamo di fronte a una moltiplicazione esponenziale degli stimoli narrativi, visivi, informativi senza precedenti. Mentre in tempi non troppo distanti l’accesso all’informazione non era immediato, oggi abbiamo sempre con noi la possibilità di guardare e ascoltare. Ciò che definiamo connettività e portabilità ha portato a una sorta di bulimia informativa tale per cui l’essere connessi, più ancora dell’informazione, è ciò che conta. Questa è a mio avviso la chiave di lettura corretta per interpretare quella che ha definito come indifferenza. Mi spiego meglio: avendo io oggi continuamente accesso a tantissime visioni e informazioni, il mio occhio e la mia mente fanno fatica a esercitare un’attenzione sempre vigile, e dunque fatico a interpretare e selezionare gli stimoli con cui entro in contatto. È evidente che in questo il digitale gioca un ruolo importantissimo, tuttavia è necessario sottolineare come i media, ma possiamo dire tutta la società in senso lato, si sia adeguata subito a una dinamica che il digitale ha reso solo possibile al pari di altre, e che è diventata dominante solo in ragione delle leggi di mercato.
In che modo il volontariato e più in generale l’associazionismo possono sfruttare le possibilità che il digitale mette a disposizione per incrementare partecipazione e cittadinanza attiva?
Io non ho ricette standard, ma quello che propongo è di essere alternativi e creativi. Ci sono due formule un po’ abusate ma efficaci: la prima è la partecipazione dal basso, per cui non soltanto gli associati, ma le persone con cui lavoro, i così detti utenti sono i soggetti più interessanti attraverso cui comunicare. Un’organizzazione non ha successo quando è lo staff a comunicare, ma quando le persone che coinvolge dicono ad altre persone che quello che stanno facendo è interessante, divertente e utile. La seconda formula, è la capacità di attivazione “tra pari”. Per pari intendo tutte quelle persone che hanno gli stessi percorsi, gli stessi interessi, gli stessi obiettivi, e riescono in qualche modo a fare massa critica. Per fare questa cosa è necessario essere capaci di resistere alla tentazione di rincorrere il “virale”, cercando strumenti alternativi che consentano di costruire reti “serie”, che si sviluppano lentamente secondo una logica, per dirla con Chris Anderson di Long Tail. Ovvero secondo un modello per cui sul digitale le cose funzionano perché si costruiscono con costanza e profondità, in modo alternativo a una logica dell’iperattività e dell’immediatezza. In estrema sintesi: tante cose diverse a bassa intensità, che però complessivamente generano effetti e ricadute maggiori di poche cose ad alta intensità.
Il digitale può essere una risorsa per l’associazionismo solo se la comunicazione viene assunta come un asset organizzativo. È corretto?
Quello che intendo dire è che fin troppo spesso nel mondo dell’associazionismo assisto a uno scarso investimento sulla comunicazione, esistono il sito web, la newsletter o la pagina Facebook, ma sono gestiti dai volontari in modo “improvvisato” nei così detti “ritagli di tempo”. Oggi però la caratteristica numero uno di una comunicazione efficace è che deve essere continuativa, soprattutto se non vuole essere risucchiata dal mercato. Le vecchie logiche per cui “il contenuto è tutto” non funzionano più, una “buona idea” non è sufficiente a garantire una comunicazione efficace. Oggi è indispensabile essere capaci di trovare la giusta strada per “agganciare” le persone al mio contenuto, in maniera seria e intelligente certo, ma anche competente. Non si tratta di “sapersi vendere”, essere capaci a comunicare vuol dire essere in grado di rendere riconoscibile l’identità della propria organizzazione e svilupparne la capacità di costruire reti. E allora io come organizzazione devo capire come posso comunicare in modo serio e competente, con quali persone e con quali risorse. Questo vuol dire cambiare il modo di pensare la propria organizzazione, vuol dire cominciare a investire nella comunicazione anche in termini di formazione.