Partecipare con metodo. In una scala con sei gradini la ricetta della buona prassi
Dall’informazione all’autocostruzione: un itinerario dal basso per una partecipazione trasparente, democratica ed efficace. Dai sociologi Arnstein e Hart una lezione per le Odv
di Marco Pietripaoli, direttore Csv Milano
Il volontariato è sempre stato nei fatti sinonimo di partecipazione, in quanto modalità di contribuzione allo sviluppo della vita della comunità. D’altronde anche la nostra Costituzione in diversi passaggi valorizza la dimensione della partecipazione della persona-cittadino alla società. Tra i tanti ricordo qui l’articolo 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
Solidarietà politica, ovvero portare il proprio contributo alla vita politica nelle formazioni dei partiti o anche solo votando; solidarietà economica, ossia contribuire alla ridistribuzione della ricchezza e alla produzione di servizi pagando le tasse; solidarietà sociale, cioè concorrere con il proprio impegno diretto alla vita della comunità, ad esempio svolgendo un’azione di volontariato.
Anche l’articolo 17 del recente D.Lgs 117/17, nella nuova definizione di volontario e di attività di volontariato, mette al centro la disponibilità a impiegare il proprio tempo e le proprie capacità in favore della comunità e del bene comune; nel precedente articolo 5 dello stesso decreto le organizzazioni sono richiamate a contribuire con almeno una delle 26 tipologie di attività previste all’interesse generale per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale.
Le tre dimensioni partecipative del volontariato
Oltre alle finalità politiche, sociali e culturali dell’azione volontaria possiamo richiamare altre tre dimensioni partecipative del volontariato:
- la dimensione della vita associativa democratica interna, che esige confronto e impegno personale perché aggregarsi per perseguire una finalità condivisa assieme ad altri è di per sé già un’azione partecipativa;
- la dimensione del collaborare tra soggetti diversi del territorio utilizzando modalità di lavoro di rete esige un agire partecipativo per la realizzazione di iniziative comuni;
- la dimensione della coprogrammazione e coprogettazione descritte nell’articolo 55 del D.Lgs 117/17 prefigurano modalità operative per gli enti di Terzo settore di rapportarsi partecipativamente con le istituzioni locali.
Tutte e tre queste dimensioni, di tipologia “organizzativa e gestionale”, possono essere perseguite con modalità più o meno partecipative, cioè coinvolgendo di più o di meno i soggetti interessati.
Tutte e tre queste dimensioni, di tipologia “organizzativa e gestionale”, possono essere perseguite con modalità più o meno partecipative, cioè coinvolgendo di più o di meno i soggetti interessati.
Spesso adottare con competenza e rigore dei processi partecipati fa la differenza per il raggiungimento di migliori risultati e per la soddisfazione delle persone e degli enti. Purtroppo è ancora scarsa in Italia l’abitudine ad utilizzare in modo diffuso corrette metodologie partecipative sia all’interno dell’organizzazione stessa, che nel lavoro tra organizzazioni sociali, che nel rapporto con le istituzioni, che nell’agire specifico sul campo magari coinvolgendo i cittadini e i soggetti deboli fruitori delle attività.
I processi partecipativi, soprattutto legati a situazioni di progettazione partecipata in campo sociale e urbanistico, nascono alla fine degli anni ’60 negli Stati Uniti e si sperimentano negli anni ’80 e ’90 in Italia, trovando terreno fertile nel campo dello sviluppo di comunità, nella partecipazione dei bambini e dei cittadini in progetti architettonici e ambientali. Negli anni più recenti trovano applicazione anche nella gestione dei conflitti sociali e territoriali, nelle formazioni politiche e nei contesti istituzionali (ad esempio nei bilanci partecipativi e nel prossimo futuro grazie all’approvazione del recente Regolamento sul Dibattito pubblico per le grandi opere previsto all’articolo 22 del Codice dei contratti pubblici – D. Lgs 50/2016). È stato un crescendo che ha visto il volontariato talvolta ancora un po’ distante anche se, come abbiamo visto, la dimensione partecipativa in realtà sarebbe connaturata.
La Scala della partecipazione dal basso
Vorrei richiamare l’attenzione su un elemento metodologico, cruciale per il raggiungimento delle finalità che si vogliono perseguire, soprattutto se vedono protagonisti volontari, cioè soggetti “sensibili” a forme di azione sociale: dichiarare ai soggetti impegnati il “livello” di partecipazione a cui sono chiamati.
Non sempre vi sono le condizioni a causa della tipologia di attività, della complessità del tema, del tempo a disposizione, … per ingaggiare le persone e le organizzazioni ad alti livelli di partecipazione: l’importante è essere trasparenti con sé stessi e con gli altri dichiarando qual è la vera possibilità di partecipazione.
Per esplicitare la riflessione faccio riferimento alla cosiddetta “Scala della partecipazione” messa a punto dal sociologo Sherry Arnstein (1969) e successivamente dal sociologo Roger Hart (1992).
In ordine inverso, nella Scala della partecipazione dal basso verso l’alto, possiamo individuare almeno sei “gradini”:
- informazione nulla: chi decide non informa i cittadini, o al massimo organizza forme di “partecipazione di facciata” utilizzando i cittadini nelle conferenze, facendogli indossare T-shirt illustrative di una causa, o addirittura fa manipolazione chiamando i possibili fruitori a manifestare il loro appoggio senza che conoscano bene i problemi e le soluzioni proposte;
- informazione: chi decide informa i cittadini, mette a disposizione motivazioni, dati, elementi di contesto, soluzioni adottate; in genere dopo, o subito prima della decisione, magari assegnando un ruolo ai cittadini stessi o alle loro formazioni sociali;
- consultazione: chi decide informa, offrendo tutti gli elementi, e poi ascolta l’opinione dei cittadini e soprattutto ne tiene conto nell’assumere le decisioni conseguenti; in altre parole i cittadini (fruitori) sono consulenti di chi decide;
- coinvolgimento: chi decide coinvolge i cittadini, non solo informa e ascolta (consulta) ma prende le decisioni in condivisione con gli stessi cittadini (fruitori); le decisioni vengono prese tutti insieme, decisori formati e fruitori stessi;
- partecipazione: i cittadini prendono ogni tipo di decisione, il processo è ideato, progettato e diretto dai cittadini (fruitori) stessi; i decisori formali lasciano spazio ai fruitori che si assumono la responsabilità della partecipazione deliberativa;
- autocostruzione o autogestione: i cittadini non solo decidono ma mettono in gioco le proprie conoscenze, disponibilità tecniche e risorse, e quindi non solo decidono in proprio ma anche gestiscono le attività o i servizi conseguenti.
Diventa quindi essenziale, in qualsiasi occasione, sia che siamo tra i decisori o che siamo tra i fruitori di processi partecipativi, essere consapevoli a quale gradino della Scala della partecipazione ci posizioniamo, per scelta strategica o per condizioni di contesto. Questo, se ben dichiarato e comunicato, permetterà di evitare fraintendimenti e scarse illusioni, sia se come volontari stiamo operando all’interno della nostra organizzazione, che se stiamo collaborando tra diverse organizzazioni sociali o nel rapporto con le istituzioni, oppure se stiamo agendo sul territorio coinvolgendo a nostra volta cittadini o diversi soggetti deboli.
Dentro in questo quadro di rigore metodologico, l’utilizzare le diverse e numerose tecniche animative, permetterà una migliore qualità di contributo partecipativo dei cittadini attivi, volontari.