Boom dell’attivismo da tastiera. Oggi l’impegno è facile e passivo. Basta un click per il tuo sostegno
Dilaga il fenomeno: ogni giorno crescono le sottoscrizioni digitali da change.org a 38Degrees. Ma senza azione è vera partecipazione? Luci e ombre sulle adesioni alle campagne web
di Elisabetta Bianchetti
Era il 2014 quando Phill Wills, un padre di famiglia inglese, ha deciso di scommettere sul web per dare voce alle sofferenze di suo figlio Josh, 13 anni, affetto da una grave forma di autismo e con disabilità nell’apprendimento. Il ragazzo, la cui condizione richiedeva assistenza costante e specialistica, era stato trasferito due anni prima in un centro di cura a Birmingham, a centinaia di chilometri da Truro, la città dove abita la famiglia Wills, in Cornovaglia. «I medici ci avevano detto – racconta il padre – che non esisteva nella nostra zona di residenza un centro specialistico in grado di farsi carico dell’assistenza di Josh, ma che comunque la permanenza di nostro figlio a Birmingham sarebbe stata temporanea». Invece, dopo due compleanni festeggiati lontano da casa per Josh e ventiquattro mesi trascorsi in auto per i suoi genitori (il viaggio era di cinque ore e mezza), nessuna soluzione sembrava profilarsi all’orizzonte. «Era straziante – spiega il padre – . Potevamo vedere nostro figlio soltanto nel fine settimana e quando arrivava la domenica separarci da lui era disumano. Eppure, la nostra vita era a Truro. Lì avevamo il lavoro e la sorella di Josh da crescere».
Lo stallo era così insostenibile che Phill Wills, su suggerimento dell’associazione di volontariato Mencap, ha deciso di lanciare una petizione (Let’s #BringJoshHome, ovvero “Riportiamo a casa Josh”) su change.org, la più grande piattaforma di attivismo in Rete, così da sensibilizzare l’opinione pubblica sul caso di suo figlio e far riflettere sulla condizione di 185 bambini britannici affetti dalla stessa malattia. Nell’arco di due giorni 10mila persone hanno raccolto il suo appello (241.357 sono stati, in totale, i sostenitori della petizione) e questo ha spronato le istituzioni coinvolte a mettere a punto, in tempi ragionevoli, una soluzione per accudire Josh (oggi 17enne) vicino a casa. «Non mi piace sollevare problemi – conclude papà Wills – ma devo ammettere che la petizione ha radicalmente modificato lo stato delle cose nell’arco di una settimana. Farei qualsiasi cosa per impedire che altre famiglie siano costrette a vivere ciò che noi abbiamo passato».
Impennata degli utenti: sono più di 8 milioni
La storia di Josh e Phill Wills, che ha fatto commuovere e mobilitare l’intera Gran Bretagna, è diventata un simbolo d’Oltremanica della potenza del “clicktivism”, un fenomeno nato in Rete e che vede in prima fila gli “attivisti della tastiera”, cioè persone coinvolte nel sostegno a campagne o iniziative solidali e politiche attraverso un colpo di mouse.
L’adesione alle petizioni lanciate sul web avviene attraverso piattaforme specializzate diventate molto conosciute come change.org e 38Degrees. Navigando tra le pagine web si nuota in un mare di proposte: dal salvataggio delle tartarughe marine alle trasparenza sui fondi post terremoto, da una legge contro la violenza sugli insegnanti all’annullamento del festival della carne di cane.
Quanto basta per mostrare la varietà e il boom dell’attivismo online, che include anche tutti coloro che sostengono le realtà del non profit mettendo un “Mi piace” ai post su Facebook o condividendo video virali su YouTube. Il clicktivism si è diffuso a macchia d’olio in tutto il mondo e sta vivendo un periodo d’oro anche nel nostro Paese. Ad attestarlo ci sono i numeri resi noti da change.org, la popolare piattaforma di petizioni online. Quando è sbarcata in Italia, nel luglio 2012, c’erano solo 136mila utenti; ora, il numero è salito a 8 milioni, con oltre 16mila petizioni attive. Roma guida la classifica delle province con più utenti (353mila), seguita da Milano (283mila), Torino (154mila), Napoli (141mila) e Firenze (80mila). Da quando change.org è approdata in Italia, inoltre, più di 900 campagne lanciate sulla piattaforma hanno raggiunto il loro obiettivo, con una media di 12 vittorie dichiarate al mese, tre a settimana. Un vero e proprio boom, quello del “clicktivism”, che coincide con un periodo storico in cui la partecipazione alle organizzazioni tradizionali (partiti politici e sindacati) è ai minimi storici.
Secondo Ben Rattray, fondatore di change.org, «c’è molta disillusione sulla politica, ma i milioni di utenti che utilizzando la nostra piattaforma dimostrano che c’è grande voglia di impegno civile, sia a livello locale, sia nazionale sia globale e che, quando le persone si mobilitano utilizzando gli strumenti giusti, i risultati ottenuti possono essere incredibili».
Critiche e dubbi: partecipazione stile marketing
L’efficacia del fenomeno clicktivism è però finita nel mirino delle critiche. Dopo una stagione di entusiasmo iniziale, voci di dissenso si sono levate sia da esponenti politici che da “ambasciatori” delle associazioni stesse di volontariato. Entrambi considerano l’adesione via web alle campagne una sorta di attività di ripiego così da evitare l’impegno (più faticoso) sul campo.
Una tesi confermata da un sondaggio di Eurobarometro: il 42% dei giovani europei ha affermato di esprimere le proprie idee politiche principalmente sui social. «I millennials – si rileva – sono spinti verso il virtuale in quanto li fa sentire a proprio agio». Lo studio osserva, però, che clicktivism e cittadinanza digitale «portino a forme di partecipazione poco incisive, se non sterili. Perché, al netto della crisi del sistema partitico, l’impatto maggiore sul processo decisionale lo si dà ancora attraverso il voto».
Oltre alle fotografie in cifre, si moltiplicano coloro che si domandano, con sempre maggiore insistenza, se l’attivismo online corrisponda davvero a un reale impegno nel tentativo di cambiare le cose. E se, non meno importante, l’attivismo digitale, da clic compulsivo, serva veramente a qualcosa. A soffiare sul fiamme dei dubbi, c’è il ventaglio di critici per i quali si tratterebbe soltanto di «una forma degradata di partecipazione civile, che ha trasformato l’impegno in una manovra da mouse o da smartphone».
Su questa lunghezza d’onda si è espresso sulle pagine del “Guardian”, Micah White, co-creatore del movimento di protesta “Occupy Wall Street” e autore del libro “The End of Protest: A New Playbook for Revolution”. Spiega: «Il clicktivism ha alienato un’intera generazione di aspiranti attivisti, a furia di campagne inefficaci e illusorie. Promuovendo la falsa speranza che navigare su Internet possa bastare per cambiare il mondo, il clicktivism sta all’attivismo come McDonald’s sta a un pasto cucinato con cura: può sembrare cibo, ma gli ingredienti nutritivi più vitali si sono persi da tempo». Continua White: «Barattando la sostanza dell’attivismo con banali luoghi comuni dal sapore riformista che ottengono buoni risultati nei test di marketing, i clicktivist danneggiano qualsiasi movimento politico genuino con cui entrano in contatto. Ed espandendo le loro tattiche in territori e nicchie politiche finora incontaminati, innescano una ingiusta competizione con le organizzazioni locali che rappresentano autenticamente la voce delle loro comunità. Sono il centro commerciale dell’attivismo: facendo leva sulle economie di scala, colonizzano tutte le identità politiche emergenti e mettono a tacere le voci più radicali e meno finanziate».
Un esempio di questa critica è Kony2012, un video di 30 minuti di Invisible Children allo scopo di promuovere la campagna umanitaria denominata Stop Kony, che aveva l’obiettivo di far catturare il criminale di guerra ugandese Joseph Kony che arruolava nel suo esercito bambini soldato. Il docufilm, caricato per la prima volta su YouTube il 5 marzo 2012, si è diffuso in maniera virale sul web, tanto da raggiungere più di 100 milioni di visualizzazioni in un mese creando un interesse a livello mondiale. Il filmato non è stato esente da critiche perchè la situazione descritta risaleva ad almeno otto anni prima della registrazione; l’armata di Joseph Kony era molto inferiore a quella indicata nel video; l’Uganda disponeva di forze armate a sufficienza per contrastare i ribelli senza il bisogno di dover ricorrere ad altro e, in particolare, uno dei dirigenti di Invisible Children, Jason Russell, che del documentario era regista ebbe una brutta crisi depressiva in pubblico. Inoltre, l’associazione, in seguito fu accusata di utilizzare i diritti umani come per scopi pubblicitari e la sua immagine pubblica ne uscì pesantemente screditata.
Traditi gli ideali, penalizzata la Sinistra
Gli albori dell’attivismo online risalgono a venti anni fa. Era infatti il 1998 quando una coppia di imprenditori americani nel settore dei software, Joan Blades e suo marito Wes Boyd, fondarono MoveOn.org. All’inizio si trattava solo di un drappello di persone che diffondevano petizioni e appelli via email (il primo fu quello con cui si chiedeva al Congresso degli Stati Uniti di continuare a portare avanti i procedimenti per l’impeachment di Bill Clinton).
Oggi MoveOn è una delle più grandi organizzazioni non profit a stelle e strisce. Non solo: è anche considerata il modello delle nuove forme di attivismo politico e civile online. Il suo metodo sfrutta in larga parte i meccanismi del marketing. Non a caso è spesso accusata di trattare la promozione delle cause sociali alla pari dei rotoli di carta igienica. «Sono finiti i tempi in cui era la fede nelle idee, o la poesia dei fatti, a innescare il cambiamento sociale – sottolinea White -. Ora invece a dettare le linee sono i test A/B (un test usato nel marketing online per misurare il gradimento di due o più versioni di una stessa pagina, ndr)».
Così come è parere comune a numerosi analisti che una partecipazione stile marketing penalizzi soprattutto la Sinistra. Uno schieramento politico che, con il reale che si fa virtuale, rischia di smarrire uno dei suoi strumenti da sempre più incisivi nel confronto con la società civile. «L’attivismo digitale è un pericolo per la Sinistra – fa notare White -. Le sue inefficaci campagne di marketing finiscono solo col diffondere cinismo politico tra le persone e sottraggono attenzione ai movimenti radicali più genuini. La sostituzione di campagne consistenti con le logiche della pubblicità ha come risultato finale il progressivo diffondersi del disinteresse politico».
Pigro e facile, la deriva è lo Slaktivism
Un altro termine con cui ci si riferisce all’impoverimento dell’attivismo digitale è Slaktivism, dall’unione dei due termini slacker e activism. In inglese slacker significa “lavativo”, con slaktivism si vuole quindi suggerire che fare attivismo online è semplicemente un modo pigro e facile per tenere a posto la propria coscienza. Le firme di una petizione su Facebook o la diffusione di qualche video connesso a cause sociali sono spesso citati come esempi di questa pratica. «La verità – continua White – è che mentre la novità dell’attivismo online svanisce, milioni di persone che in precedenza si sono impegnate sfidandosi delle organizzazioni digitali poi si allontanano credendo nell’impotenza di tutte le forme di attivismo. Persino le principali organizzazioni trovano sempre più difficile motivare i propri membri a qualsiasi azione. La verità è che la stragrande maggioranza, tra l’80% e il 90%, dei cosiddetti membri raramente apre le email di una qualsiasi Campagna. I clicktivist sono da incolpare per alienare una generazione di aspiranti attivisti con le loro campagne inefficaci che assomigliano al marketing».
Il clicktivismo è quindi impulsivo, non impegnativo, ed è così basilare che può essere facilmente replicato. È una forma di impegno civico e un atto politico legittimo, poiché l’attivismo ‘reale’ è ad alto rischio e difficile da realizzare mentre l’attivismo digitale è a basso rischio e facile da realizzare.
Conclude White: «Forse è arrivato il momento di porsi una domanda molto difficile: siamo sicuri che i risultati ottenuti attraverso queste campagne online valgano le perdite subite dalle organizzazioni più tradizionali, che sempre più spesso sono snobbate dalle persone che preferiscono forme più comode (ma la cui efficacia deve ancora essere tutta dimostrata) di attivismo? Non si tratta di cercare di capire se il lavoro di mille slaktivist equivale al lavoro silenzioso e spesso non riconosciuto di un solo attivista tradizionale. Il vero problema qui è capire se la sola opzione dello slaktivism possa disincentivare l’azione concreta di quelle persone che in passato si sarebbero confrontate direttamente con dimostrazioni, volantinaggio e sit-in. Spingendole a optare per una più facile sottoscrizione a qualche centinaia di cause via Facebook. Se questo sta davvero accadendo, allora vuol dire che i tanto osannati strumenti della libertà digitale ci stanno solo portando ancora più lontano dall’obiettivo di costruire una società civile e democratica».