Uno, dieci, mille Porto Alegre. Così il bilancio partecipativo dà voce anche agli ultimi
Nato nella città brasiliana nel 1989 si è diffuso nel mondo. Italia compresa. Con questo strumento i cittadini possono partecipare direttamente alle politiche pubbliche locali
di Anna Donegà
Tra le forme di partecipazione diretta dei cittadini alla vita politica del proprio territorio merita attenzione lo strumento del bilancio partecipativo attraverso il quale i cittadini sono chiamati a gestire una quota di bilancio, generalmente di un ente locale, per la realizzazione di beni o servizi a favore della collettività. Abbiamo approfondito lo sviluppo di questa modalità partecipativa e le sfide che pone tutt’oggi per la ricostruzione del rapporto di fiducia tra cittadini e amministrazioni locali con Giovanni Allegretti, architetto e urbanista, ricercatore senior al Centro di Studi Sociali della facoltà di economia dell’Università di Coimbra e componente dell’Autorità regionale per la garanzia e la promozione della partecipazione della Regione Toscana.
Come si è sviluppata l’esperienza del bilancio partecipativo a partire dagli anni ‘70, con particolare riferimento all’esperienza di Porto Alegre e qual è la situazione oggi?
Il bilancio partecipativo si è sviluppato in America Latina dopo le dittature degli anni ’70-‘80, anche se ha origini precedenti, come modalità per dar voce ai gruppi sociali fino ad allora rimasti ai margini e per garantire una maggiore giustizia redistributiva. L’obiettivo era quello di rafforzare le istituzioni rappresentative e affermare il decentramento. La forza del bilancio partecipativo stava nel fatto che i cittadini, per la prima volta, erano coinvolti non solo per raccogliere idee su come spendere determinate quote di bilancio ma anche sulla scala delle priorità.
Quali sono alcuni degli esempi più significativi?
Sicuramente le esperienze di Porto Alegre hanno fatto scuola. Sono quelle più significative per lo sviluppo successivo del bilancio partecipativo. Infatti, la città brasiliana è riuscita a coinvolgere anche le zone più povere de tessuto urbano ad applicare il metodo anche ad altri processi, come ad esempio la definizione del piano regolatore. Nel mondo l’espansione di questo metodo si è avuta a partire dagli anni 2000 in Europa, Africa, Nord America e Asia con alcune peculiarità: bilanci con cifre contenute; meno centrati sull’inclusione sociale e più sul coinvolgimento dei cittadini attraverso il voto diretto. In Europa, inoltre, si sono sviluppate metodologie miste con piattaforme online alle quali si affiancano metodologie di incontro più tradizionali. I numeri ci dicono che è uno strumento tutt’altro che in abbandono. Nel 2010 si contavano 1.500 esperienze, delle quali 900 solo in America Latina. Nel 2014 sono arrivate a 3 mila, più della metà sviluppate in Europa. Secondo l’ultimo censimento di quest’anno, di Hope for democracy è di 7.600 bilanci partecipativi attivi, grazie anche ad alcune leggi dedicate e l’interesse anche in Paesi con forte autoritarismo come Russia, Cina, Zimbawe. Si tratta sicuramente di esperienze più “leggere” rispetto a quelle latinoamericane degli anni ’70 ma con un forte valore pedagogico e di recupero della fiducia da parte dei cittadini.
Mentre qual è la situazione in Italia?
In Italia il picco si è raggiunto nel 2009 con 160 esperienze, delle quali molte in Lazio grazie ad una legge regionale che introduceva il bilancio partecipativo sia a livello regionale che comunale. Altre realtà significative si sono sviluppate in quegli anni soprattutto a Milano, in Emilia, a Cagliari. In seguito gran parte di queste esperienze si sono interrotte, soprattutto a causa dell’abolizione dell’Ici e la diminuzione dell’autonomia locale. Nel 2014 grandi città come Torino, Milano, Roma e Bologna e regioni come la Sicilia e la Toscana hanno ripreso i processi partecipativi sul bilancio anche con quote significative – a Bologna 40 milioni di euro e in Sicilia il 2% dei fondi trasferiti dalla Regione al Comune – e sono nate esperienze dedicate agli istituti superiori ad esempio nel milanese e nelle Marche e nel carcere di Bollate con il coinvolgimento dei detenuti. Attualmente possiamo contare circa 30 processi attivi. Il fatto che questi si stiano sviluppando in grandi città porta all’auspicio che la visibilità sia utile per una nuova diffusione in altre realtà più piccole.
Ci può citare un esempio?
Ritengo sia interessante il caso del Bilancio Partecipativo promosso dal Comune di Milano perché evidenzia alcune caratteristiche. Il primo percorso, avviato nel 2016, aveva come budget 9 milioni di euro. Da subito si sono presentate due criticità: l’ostilità dei Municipi ai quali erano stati sottratti 4 milioni di euro e la delusione dei cittadini a causa della sospensione del percorso a per la caduta della giunta comunale. Il nuovo assessore, Lorenzo Lipparini, su incarico del sindaco Sala, ha dato nuova linfa puntando su alcuni aspetti. Il primo è coinciso con lavoro sui quartieri, attraverso la piattaforma Empatia. Il secondo è stato un accordo con l’Università degli Studi di Milano per gestire e studiare i processi partecipativi online. Poi, viste le precedenti delusioni, si è partiti dal monitoraggio di quanto era stato realizzato in precedenza per poi aprire la fase di discussione. Oggi, oltre al bilancio partecipato, sono attivi altri processi di discussione per esempio sui Navigli e sul riutilizzo delle piccole stazioni ferroviarie in disuso. I vari strumenti e progetti sono disponibili nel sito di Milanopartecipa. L’esempio di Milano ci aiuta a capire che per la buona riuscita dei processi partecipativi è fondamentale la costanza e la trasparenza, oltre al doppio coinvolgimento attraverso le piattaforme online e gli incontri territoriali a carattere deliberativo.
Qual è il coinvolgimento dei corpi intermedi nelle esperienze di bilancio partecipativo?
Il bilancio partecipativo ha lo scopo di intercettare le persone sfiduciate oltre che dalle istituzioni anche dalle organizzazioni che fungono da intermediari tra i cittadini e l’amministrazione pubblica. Per questo i corpi intermedi non sono coinvolti. Chi partecipa molto spesso è già attivo in associazioni del Terzo settore, perché queste organizzazioni sono più predisposte al dialogo e al coinvolgimento dei propri aderenti per il bene collettivo. Inoltre il ruolo delle organizzazioni è fondamentale nel portare i propri iscritti a partecipare e far conoscere questi strumenti.
Oggi si parla molto spesso di bilancio sociale. Questo strumento può sostituire il bilancio partecipato?
Il bilancio sociale è uno strumento molto diverso dal bilancio partecipativo perché è un documento che viene redatto a posteriori e ha lo scopo di esplicitare come sono stati spesi i soldi e cosa hanno generato al di là del valore economico e non richiede per forza una realizzazione in forma collettiva. Non sono strumenti interscambiabili, visto che uno lavora sul passato e l’altro sul futuro ma sicuramente possono essere complementari. La rilettura critica del bilancio che viene fatta attraverso il bilancio sociale può infatti aiutare la fase di discussione del bilancio partecipativo, inoltre il bilancio sociale può essere da stimolo per rendere narrativi i bilanci, anche quelli frutto di percorsi partecipativi. Dall’altra parte i processi di coinvolgimento diretto delle persone è un elemento che può arricchire i bilanci sociali. Ritengo quindi che l’integrazione tra i due strumenti sia praticabile e auspicabile e potrebbe essere tra l’altro una peculiarità tutta italiana.