Dall’eurocrazia all’eurowelfare. Più solidarietà oltre l’economia
Processo ai tecnocrati di Bruxelles. E lotta alle disuguaglianze con la via dell’Unione sociale europea. Dialogo con Sassen, Chalmers, Offe, Ferrera e Vandenbroucke.
di Paolo Marelli
«Questa leadership europea se la merita la Brexit». Il commento di Saskia Sassen, sociologa ed economista statunitense, è già una mezza sentenza che descrive l’antieuropeismo montante. Per la professoressa della Columbia University di New York, che tiene sotto osservazione i mutamenti delle città globali incrociandoli con riflessioni su crisi finanziaria e aumento delle disuguaglianze sociali, la vittoria del “Sì” al referendum britannico nel 2016 è stato un “voto di classe”, una deflagrazione che ha portato in superficie «un profondo senso di rabbia e di ingiustizia.
Un livore contro i politici di Bruxelles che, in nome del Pil, hanno perso ogni contatto e legame con la gente, soprattutto con i più deboli. Una ribellione che ha spinto il Regno Unito a voler uscire dalla Ue. Costi quel che costi». Anche per la Sassen, l’eurocrazia è il fallimento di un sogno.
Quello dell’Europa come comunità di persone. Proprio come dicono nella loro requisitoria Damian Chalmers, Markus Jachtenfuchs, Christian Joerges. In questa sorta di processo alla Ue, i tre studiosi hanno infatti curato un libro a più mani (“The End of the Eurocrats’ Dream. Adjusting to European Diversity”, Cambridge University Press 2016) che è diventato ormai un testo sacro per gli euroscettici. In una ampia collezione di saggi è raccolto un castello di accuse contro la tirannia dell’economia, l’ossessione per la stabilità monetaria e fiscale, la miopia dei tecnocrati, i conflitti sull’integrazione, l’empietà del potere esecutivo dell’Unione.
Una radiografia dei mali che soffocherebbero l’Europa comunitaria, lasciando ormai senza ossigeno il sogno di uno Stato unitario continentale. Perché la realtà odierna è contraddistinta da un grave deficit di democrazia, equità e giustizia sociale, da un’erosione di benefici per i più svantaggiati e dalla crescente sfiducia dei cittadini nelle istituzioni comunitarie.
Una spinta agli eurocratici verso il banco degli imputati arriva anche dal Belgio: Frank Vandenbroucke, economista e sociologo di Lovanio negli anni scorsi prestato alla politica, di fronte all’attuale Ue s’interroga su eventuali errori del passato. «I padri fondatori dell’Europa – dice – erano convinti che l’integrazione economica avrebbe favorito lo sviluppo di prosperi welfare state nazionali, lasciando la responsabilità delle politiche sociali ai singoli Stati. La storia non ha dato loro torto, almeno fino alla metà del primo decennio di questo secolo. Adesso però la crisi ci costringe a riesaminare la questione: come fare perché l’Ue non vacilli? Come far sì che sia un’unione di welfare state di successo?».
L’equazione tedesca: più lavoro uguale più solidarietà
Una risposta prova a darla da Berlino, Claus Offe. La tesi di fondo del sociologo e scienziato della politica tedesco è che in Europa se non crescerà l’occupazione non crescerà nemmeno il volontariato, cioè uno dei pilastri su cui ormai si regge lo stato sociale. E siccome «lavoro e solidarietà camminano a braccetto, solamente laddove ci sarà sicurezza di un reddito, ci sarà maggiore volontà a impegnarsi gratuitamente per gli altri». Offe, una delle voci più ascoltate non soltanto in Germania ma anche nel panorama europeo, mette in fila i tasselli di un ragionamento di ampio respiro. «Il non profit è diventato fondamentale per la sopravvivenza del welfare state. E quest’ultimo se prosciugato di risorse economiche e di valori, rischia di esplodere. Le conseguenze? Se saltasse il welfare, salterebbe la democrazia. L’autoritarismo vincerebbe e il nazional-populismo dilagherebbe nelle piazze del Vecchio Continente con conseguenze imprevedibili». Offe non nasconde i suoi timori, inviando un messaggio a Strasburgo alla vigilia di una campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento, perché l’Ue nei prossimi cinque anni sostenga la lotta alla disoccupazione e rafforzi il complesso edificio del capitale sociale. Ma soprattutto lavori per promuovere l’integrazione fra Stati e prema per una maggiore solidarietà sovranazionale tra loro.
Appello a Bruxelles: più flessibilità e cooperazione
Questo appello a un approccio più flessibile da parte di Bruxelles, affinché tenga conto delle differenze economiche e culturali per una spinta verso una più solida cooperazione fra i ventisette Paesi, è sotto-scritto anche da Chalmers (docente di legge a Singapore, ma con una lunga carriera di studioso alla prestigiosa London School of Economics), e dai tedeschi Jachtenfuchs e Joerges (politologo il primo, sociologo il secondo, entrambi insegnanti alla Hertie School of Governance di Berlino). Nel loro volume evidenziano che “i burocrati di Bruxelles” sono sempre più sfidati dai movimenti anti-euro, dal malcontento per vincoli e sanzioni imposti dall’Ue. Protesta che dilaga fra classe politica, imprenditoriale e intellettuale.
I tre studiosi sottolineano che l’eurocrazia non ha promosso quel circolo virtuoso di crescita e convergenza verso l’alto che i Ventisette speravano. Semmai ha amplificato le divergenze. Così come non ha saputo rilanciare la crescita e ha imposto elevati costi sociali ai Paesi più deboli.
Risultato? Il sistema ha salvaguardato l’euro, ma non ha posto le con-dizioni perché l’unione monetaria sia un vantaggio di tutti. Come dire, non ha alimentato la prosperità nell’Eurozona. Al contrario, ha rivelato un disavanzo di legittimità, disuguaglianza ed esclusione. In-somma agli occhi di Chalmers, Jachtenfuchs e Joerges, l’Ue appare sempre più come il romanzo di un sogno fallito.
Il futuro della Ue? Si chiama Unione sociale europea
Che fare allora? Come restare insieme creando un orizzonte comune? Nel dibattito delle idee acquista sempre più forza la proposta di Vandenbroucke. Contro l’eurocrazia per lo studioso belga – come ha anche scritto sul quindicinale online “Menabò” dell’associazione culturale Etica e Economia di Roma – l’Ue dovrebbe diventare un’Unione sociale europea che faccia da contraltare a quella economica e monetaria. Non un welfare state federale europeo, visto che ciascun Paese ha le proprie tradizioni, pratiche e preferenze, ma una unione di stati sociali nazionali.
Tradotto: Bruxelles dovrebbe sostenere i welfare state nazionali, fissando obiettivi e standard; lasciando poi agli Stati membri la scelta dei mezzi e delle forme di attuazione, rispettando le diversità istituzionali e le eredità storiche. Secondo Vandenbroucke, il primo passo da compiere sarebbe un rafforzamento dello spazio di cittadinanza europea, ma anche un investimento di risorse laddove necessario. L’Unione europea dovrebbe istituire un fondo che alleggerisca il costo che alcuni Paesi subirebbero rispetto ad altri perché destinazioni particolarmente ambite. Come dire, lo spazio della cittadinanza europea dovrebbe essere confermato, ma in qualche modo sostenuto finanziariamente da Bruxelles.
Ciò che immagina Vandenbroucke è una sorta di nuovo “contratto sociale” con tre poli: Ue, governi nazionali e cittadini. Una proposta idealistica o una strada obbligata per salvaguardare il progetto di un’Europa unita, inclusiva e prospera? Per il professore di Anversa la risposta è scontata, ma a patto che si faccia della solidarietà l’architrave di questa nuova via che rimetta al centro la persona, le re-lazioni, la sostenibilità. Spiega Vandenbroucke: «C’è una solidarietà pan-europea e ce n’è una interna ai welfare state nazionali. La prima, farebbe riferimento alla convergenza verso l’alto e alla coesione su scala continentale. In sostanza, essa si riferisce al diritto di ciascuno di migliorare le proprie condizioni di vita.
Per esempio, lavorare in uno Stato membro diverso da quello in cui si è nati; oppure garantire il diritto dei pazienti di beneficiare, a certe condizioni, delle cure mediche in uno Stato membro diverso da quel-lo di residenza. La seconda, farebbe riferimento alle assicurazioni sociali, alla redistribuzione del reddito, al bilanciamento tra diritti e doveri del cittadino, ossia a tutto ciò che definisce i welfare state nazionali». In altre parole, la legittimazione politica del progetto europeo richiederebbe un circolo virtuoso di coesione crescente sia a livello pan-europeo che europeo.
Ruolo da protagonista per il Terzo settore
«Un ruolo “significativo” nella futura Unione sociale europea dovrebbe averlo il Terzo settore, anche se servirebbero “incentivi di natura fiscale, come avviene in altri Paesi», sostiene il politologo Maurizio Ferrera, professore all’Università di Milano e architetto del “secondo welfare” in un colloquio con l’agenzia Redattore sociale. «Di certo il suo ruolo in questo contesto dovrebbe essere di complemento rispetto al welfare pubblico – spiega -. In particolare, riguardo a quei bisogni che non sono ancora coperti dal welfare pubblico o che lo stesso non riesce a raggiungere perché agisce sulla base di criteri standardizzati. Oggi invece i bisogni variano a seconda di numerosi fattori non necessariamente tutti tenuti in conto da un intervento pubblico». Per Ferrera, un non profit d’avanguardia potrebbe sperimentare soluzioni che poi possono essere anche trasposte nel welfare pubblico, così come mobilitare risorse sia finanziarie che di altruismo. Social bond, social impact bonds, forme di assicurazione mutualistica integrativa sono un fiorire di presta-zioni sociali innovative. Utili a colmare le lacune del pubblico, a contenere i costi statali, senza rinunciare alla protezione sociale. Disinnescando quella ribellione dei più deboli che sta minando l’unità europea.
GRANDANGOLO
Claus Offe, L’Europa in trappola. Riuscirà l’UE a superare la crisi?, Il Mulino, 2014
Frank Vandenbroucke, A European Social Union After the Crisis, Cambridge University Press, 2017
Saskia Sassen, Le città nell’economia globale, Il Mulino, 2010