Come costruire “città riparative”
Costruire “città riparative” è uno degli ambiziosi obiettivi della Restorative Justice, in italiano Giustizia riparativa. In una società conflittuale e divisa come quella in cui siamo immersi, disegnare un insieme di pratiche che mirano al benessere di tutti, che guardano al futuro con occhi nuovi, è ormai un’esigenza. Gli enti del terzo settore, le istituzioni, i cittadini, i volontari e lo stesso CSV nel suo ruolo di progettazione e coordinamento, giocano un ruolo centrale nella diffusione della cultura riparativa e nel gettare le basi di comunità che affrontano i conflitti in modo partecipato e costruttivo.
Ma che cos’è una città riparativa e come si costruisce? Quali sono le necessità a cui rispondere e quali le pratiche, gli strumenti? Sono queste le domande intorno a cui si è sviluppato il dibattito del gruppo che Cristina Vasilescu dell’associazione Comunità “Il Gabbiano”, ricercatrice, esperta in progettazione europea, ha coordinato all’European Forum for Restorative Justice che si è concluso a Sassari lo scorso 25 giugno e che ha radunato centinaia di operatori ed esperti internazionali. Cristina Vasilescu racconta quali sono le città riparative che si sono confrontate e quali sono stati i temi affrontati dai rappresentanti internazionali delle Restorative Cities.
Le città riparative
“Il working group delle città riparative è composto dai rappresentanti di varie città europee. In Italia Tempio Pausiana è stata la prima a dare vita a varie iniziative di comunità, per esempio con l’inclusione del carcere di massima sicurezza che aveva generato conflitto nella comunità stessa; da questo intervento ne sono germinati altri nella scuola pubblica e per iniziativa del Comune. A Tempio Pausania è stato poi creato un Ufficio di mediazione. Progetti di giustizia riparativa si sono poi diffusi a Lecco, dal 2012, poi a Como a partire da alcuni ambiti e territori specifici, per esempio con il Progetto Contatto e i corpi intermedi a Fino Mornasco e nel quartiere di Rebbio.
Le altre città “riparative” sono Leuven in Belgio – in cui si è formalmente costituito un network di soggetti che opera per la diffusione dell’approccio riparativo con finanziamenti erogati dal Comune – Wroclaw, Polonia, dove si è attuato un processo “top down” con iniziative organizzate dalla società civile, per poi avviare un Centro per la giustizia riparativa comunale. Restorative City, e quindi parte del gruppo, è anche Tirana, in Albania, che ha ospitato un precedente Forum Europeo. Infine Bristol, in Inghilterra, Restorative City che ha a lungo lavorato sul tema in diversi tipi di interventi di mediazione dei conflitti a livello di comunità-quartieri e dove è nato un team specifico, il “Youth Offending Team”, dedicato ai minori dai 10 ai 17 anni. A Bristol è nato anche un servizio che implementa progetti di giustizia riparativa e servizi specifici su discriminazione di genere, disabilità e odio razziale. C’è poi un servizio di mediazione sul luogo di lavoro e nelle organizzazioni chiamato “Resolution at work” e, infine, un intervento specifico che mira ad avvicinare ebrei e musulmani attraverso l’arte, il teatro, workshop e interventi nelle scuole. La referente di Bristol ha proprio riportato esperienze di scuole riparative a tutti gli effetti.
Che cosa fa il Tavolo delle città riparative
Dunque, intorno al tavolo di Sassari si è seduto un rappresentante per ogni città, e nel suo ruolo di chair Cristina Vasilescu ha ricoperto una funzione di coordinamento operativo, un ruolo che prevede una rotazione ogni 6 mesi. E’ stato ricoperto in passato da Grazia Mannozzi come prima referente, poi da Gianluigi Lepri dell’Università di Sassari e dall’autunno dello scorso anno da Vasilescu.
«L’obiettivo è riunire le varie esperienze europee sul tema della città riparative per cambiare degli apprendimenti – spiega Cristina Vasilescu – Perché c’è bisogno di una città riparativa e come si costruisce una città riparativa sono state le domande guida. In Europa esistono altre tipologie di città che, se non proprio sovrapponibili, hanno molti punti di contatto con le restorative cities. In Olanda, per esempio, esistono le “Città pacifiche” il cui obiettivo è costruire relazione armoniose tra gli abitanti. Di recente è nato un movimento europeo, “Le città per i diritti umani”, a cui hanno aderito una ventina di città. Si tratta di premesse che sono molto simili a quelle di una restorative city. Uno dei temi emersi è stato se sia necessario definire cosa è città riparativa o se è meglio lasciare la definizione aperta per includere varie prospettive… Il punto di mediazione che abbiamo trovato dopo il confronto è che ciascuna città deve darsi la propria definizione e lo deve fare insieme agli abitanti, non sono il Comune o un soggetto terzo che definiscono in astratto cosa è città riparativa ma i cittadini stessi, secondo i propri bisogni e le specifiche finalità che si vogliono perseguire. Portare l’approccio riparativo ai diversi ambiti, alle diverse anime della città, come avviene per esempio con i Corpi intermedi di Rebbio, è per esempio una finalità; costruire relazioni positive e dare ai propri abitanti le competenze per gestire i conflitti in modo positivo e costruttivo è la risposta a un altro tipo di bisogno. Tutto questo, partendo dai valori cardine della giustizia riparativa e lasciando lo spazio di definizione a livello delle singole città».
Capire il contesto
«Bisogna partire dunque dalle esigenze specifiche dalle comunità. Capire il contesto è il punto di partenza, è fondamentale. A Rebbio per esempio i conflitti si ripetevano nonostante le persone e le generazioni cambiassero, la domanda allora è stata: come far sì che alcuni conflitti che si ripetono da anni non si ripetano più? Occorreva trovare modalità di gestione più efficaci.
Altra premessa è capire qual è il capitale sociale su cui far leva: non è un soggetto che costruisce la città riparativa ma tutte le città riparative hanno alla base network, reti sociali riconosciute che in Italia chiamiamo “Tavoli”. A Bristol c’è una rete formale, così come a Leuven dove ha uno statuto giuridico. Occorre avere soggetti riconosciuti con cui lavorare. Se la società civile è sviluppata è più facile, altrimenti il tempo di creazione sarà molto più ampio.
L’altro fattore importante è se il processo di costruzione della città riparativa si avvia nel momento di conflitto intenso oppure se ci sono conflitti latenti che non si vedono. Chi e come coinvolgo? Ho bisogno di un soggetto esterno? Per agire devo capire che tipo di conflitti ci sono, quanto è interesse dei soggetti lavorare su quei conflitti. Ugualmente importante è capire quali sono le visioni di giustizia degli abitanti e come si approcciano al tema.
Un altro aspetto da tener presente è che sia che il processo si sviluppi dal basso sia che invece provenga dall’alto, alto e basso devono a un certo punto trovare un ponte e stare insieme, diversamente è più difficile influenzare le politiche della città. Se parto dall’alto il rischio è che dove ci sono conflitti che coinvolgono l’ente pubblico io non riesco ad avviare il processo perché la gente non si fida. La fiducia è fondamentale e va costruita. Efficace è agire con chi ha autorevolezza ed è riconosciuto dalla comunità, se il promotore è ancorato nella comunità i cittadini si fidano, riconoscono la sua competenza e il valore degli interventi precedenti».
C’è bisogno di risorse
«Non c’è un momento in cui si può dire ok, ora siamo città riparativa, – conclude Cristina Vasilescu – le persone cambiano è un processo dinamico, la città non è un corpo astratto stabile si modifica continuamente è un processo di evoluzione continua. E per operare efficacemente c’è bisogno di risorse, questa è la nota dolente in tutte le città non solo in Italia, è un tema che ritorna in tutti i racconti anche oltre l’Europa. Se voglio città riparative devo investire continuamente e tenere il faro sulle pratiche e sull’aspetto generale culturale».