LINK-ed-IN: intervista alla psicologa Tiziana Mannello
Tiziana Mannello, psicologa psicoterapeuta, mediatrice dei conflitti familiari, lavora dal 2008 con l’associazione comunità il Gabbiano onlus che è una delle realtà in rete con il progetto LINK-ed_IN.
Di cosa si occupa in particolare?
Sia di progettare, che di coordinare e realizzare nel mio ruolo di psicologa e di mediatrice familiare progetti e interventi nel sociale. Uno degli ambiti in cui lavoro è appunto quello dei percorsi di tipo penale sul territorio, quindi, per tutte quelle persone che hanno esperienze di carcerazione alle spalle o che comunque sono soggette a misure penali che possono giovare di tutta una serie di aiuti sul versante casa, lavoro, relazioni e occasioni.
In questo ambito, mi sono occupata negli anni di percorsi e progetti che vengono definiti por carcere, come un po’ anche questo link-ed-in, su vari territori per esempio anche il territorio di Lodi. Da quando lavoro nel territorio di Como sto cercando, insieme all’associazione, di aprire questo ambito di riflessione e di lavoro anche su questa territorialità con una specifica che è quella dei legami familiari.
Cosa segue, in particolare, nel progetto Link-ed-in?
T: Nel progetto link-ed-in mi occupo del supporto alle persone uscite dal carcere o con misura penale e ai loro familiari, affinché i loro legami familiari, le loro relazioni possano essere sostenute in un periodo delicato che può essere quello del ricongiungimento dopo l’esperienza carceraria, oppure quello della pena, per comunicarlo al nucleo familiare, o appunto dell’esecuzione penale esterna. In questo senso, negli ultimi anni, si è letta sempre di più sul territorio di Como, ma in generale in questo campo, l’esigenza di dare un sostegno alle relazioni familiari quando un congiunto vive un’esperienza carceraria oppure di costrizione, limitazione della libertà per tante ragioni. Perché? Una ragione è perché l’esperienza di carcerazione e poi fuoriuscita dal carcere e poi ricongiungimento è comunque un’esperienza che coinvolge non solo la persona detenuta ma anche i familiari.
Quindi non è solo la persona detenuta ad avere bisogno di supporto ma anche i suoi familiari. Un’altra è perché si è visto che spesso, anche se i reati per cui le persone sono in carcere non sono dettati da ragioni familiari o non riguardano i rapporti familiari, le recidive possono essere legate a tensioni, conflitti, situazioni di violenza in casa che possono essersi verificate dopo o durante l’esperienza penale. In questo senso lavorare sulle relazioni familiari significa sostenere la persona detenuta o in misura penale, ma anche i familiari e lavorare per una riduzione dei rischi di recidiva, quindi in qualche modo è un bene anche per la società, non solo per l’individuo, per i figli e la famiglia ma per la società.
In particolar modo nell’ultimo anno e mezzo con l’esperienza del Corona virus le situazioni si sono un po’ aggravate nel senso che il primo lockdown, ma anche il secondo in forma minore, ha costretto molte persone a rimanere chiuse in casa con convivenze anche difficili e questo può essere stato ancora più complicato in quelle situazioni familiari in cui c’erano per esempio familiari agli arresti domiciliari oppure con misure di restrizione della libertà. Sappiamo cosa è successo nelle carceri in corrispondenza del Corona-virus e come gli accessi in carcere siano stati fortemente limitati e quindi anche le visite dei familiari lo siano state, dunque ad un’interruzione dei rapporti familiari conseguente alla carcerazione se ne è aggiunta un’altra che era l’interruzione delle visite in carcere. Il tema delle relazioni familiari che è già un tema critico e noto su cui erano già programmati degli interventi è diventato più evidente ed esclusivo in corrispondenza del Corona-virus anche per le persone in detenzione o sottoposte a misure restrittive della libertà in casa. Motivo per cui il progetto ha cercato di ritagliare, anche sulla spinta del fondo della regione che lo finanzia, una serie di azioni specifiche riguardanti appunto il supporto alle famiglie delle persone che vivono situazioni di detenzione o restrizione della libertà. In modo particolare in questo momento è attivo uno spazio proprio di supporto a queste situazioni, che è uno spazio sul territorio quindi non localizzato in luoghi connotati o connotanti, come è buona regola fare in queste situazioni, che è uno spazio messo a disposizione dall’associazione il Gabbiano, a Como, in via Giovanni Palma.
Chi sono le persone che incontri?
T: Io incontro sia, per esempio, genitori che hanno avuto delle esperienze di detenzione e sono usciti dal carcere, ma hanno delle difficoltà a riallacciare i rapporti con i loro figli, magari figli da relazioni precedenti rispetto a quella in cui attualmente sono impegnati, ma incontro anche figli che uscendo dal carcere hanno fatto fatica a ristabilire dei legami con i propri genitori.
Questo vale sia per i figli adulti che hanno vissuto un’esperienza di detenzione in età adulta, rispetto a cui i legami con genitori magari anziani e con fratelli e sorelle possono essere stati messi a dura prova da questa esperienza di detenzione, sia figli più giovani che hanno esigenze differenti ma comunque legate alla necessità di ripristinare dei legami familiari che possono essere stati compromessi in conseguenza o in relazione al reato che hanno compiuto o alla detenzione stessa. Incontriamo anche coppie perché anche il legame di coppia è un legame significativo a cui fare attenzione, a cui dedicare cura perché se un membro della coppia vive un’esperienza di detenzione l’altro membro può decidere di aspettarlo oppure no e sia in un caso che nell’altro comunque ci sono delle implicazioni, delle conseguenze di cui è importante occuparsi.
Da un lato è importante sostenere le coppie nel ricomporsi, quando ci sono dei figli anche la loro famiglia, quando la persona detenuta esce dal carcere, perché non sempre è facile: le esperienze di detenzione possono anche essere lunghe e nel frattempo le persone possono trasformarsi, cambiare e incontrarsi dopo tanti anni può non essere così immediato, così intuitivo, ma anche le esigenze dei figli possono essere cambiate perché magari nel frattempo sono cresciuti e anche in questo caso il ricongiungimento del genitore con la famiglia trasformata può non essere così semplice e quindi richiedere un accompagnamento.
In altri casi, quando il partner che è rimasto fuori ha deciso di non aspettare il partner detenuto e quindi separarsi e rifarsi un’altra vita, può essere utile aiutare ad affrontare la separazione conseguente alla carcerazione o conseguente alla decisione di uno o di entrambi. In generale per una questione di favorire il benessere nelle relazioni in uscita dal carcere o durante l’esperienza carceraria, ma anche per ridurre i rischi di conflitti, di aggressività e di eventuali violenze in casa.
Per quanto riguarda invece i figli più piccoli?
T: Un aspetto particolare di attenzione viene dato ai figli perché a volte comunicare a dei figli, sopratutto se sono piccoli, che la mamma o il papà sono in carcere non è facile perché i genitori possono non sapere come farlo e possono pensare erroneamente che non dire la verità sia più tutelante per i bambini, cosa che non risponde a un reale loro bisogno.
I bambini hanno bisogno di capire cosa sta accadendo per potersi rappresentare la realtà, comprenderla e capire che il papà o la mamma non hanno scelto di stare lontani da loro, in modo tale che si possano sentire meno abbandonati dalla figura genitoriale, ma che sono costretti a stare lontani perché hanno fatto un errore e qualcuno ha deciso che devono rimanere in prigione per un certo periodo di tempo. Aiutare i genitori a trovare le parole giuste per comunicare ai figli che cosa accade alla loro famiglia, cosa accade all’altro genitore è un compito molto importante e non sempre i genitori sono supportati in questo, quindi i bambini si trovano a sentirsi dire delle bugie rispetto al fatto che l’altro genitore è in carcere, non comprendere queste bugie perché, come si suol dire, le bugie hanno le gambe corte, e non riuscire, proprio perché non hanno informazioni chiare, a rappresentarsi che cosa sta accadendo.
Questo li può confondere, può creare dei malesseri e nel lungo periodo può creare delle difficoltà più grandi, in questo senso, questo progetto si offre anche ai genitori che rimango fuori vicino ai figli per trovare le parole e le modalità giuste per comunicare ai figli questa esperienza dolorosa che riguarda la famiglia. In alcuni casi quello che si fa è aiutare le famiglie a tenere un dialogo aperto su quello che sta accadendo, per esempio con i giovani adulti che hanno in corso dei procedimenti penali e ciò provoca delle tensioni in famiglia rispetto a come affrontare il processo, come affrontare la messa alla prova, come preparasi alla sentenza del giudice…
In questo spazio si offrono dei momenti di dialogo di confronto tra genitori e figli su questa situazione perché a volte l’aiuto di un terzo, esterno alla famiglia, che ha un ruolo di facilitazione della comunicazione e di mediazione dei conflitti può essere un grande supporto alla famiglia per aiutarla a parlare di queste questioni che nelle mura di casa, nella quotidianità della vita familiare può essere difficile portare o rispetto a cui si può litigare anche molto. In sostanza questi sono gli interventi del progetto, sono interventi diversi che possono essere sia con le singole persone che con le coppie o gruppi familiari e che prevedono da uno a pochi incontri o dei veri e propri percorsi di accompagnamento. L’obiettivo è sempre sensibile: quello di supportare le competenze genitoriali ma anche i legami familiari più in generale.
Come si mettono in atto queste azioni?
Funziona così: l’agente di rete del progetto segnala in equipe delle situazioni che potrebbero avere bisogno di un supporto di questo tipo e a seconda della situazione si costruisce l’intervento. Per esempio se ci sono dei genitori in uscita dal carcere: ci sono genitori che hanno una forte limitazione delle responsabilità genitoriali, altri no, quindi in questo caso si lavora in modo diverso. Nel primo caso si lavora in collaborazione con altri servizi e i servizi di tutela, nell’altro caso non necessariamente.
Si fanno uno o due incontri di rete preliminari all’attivazione del percorso, se i servizi che sono intorno alla situazione sono concordi si propone alla persona interessata di fare un incontro conoscitivo in cui si spiega l’opportunità e la possibilità messa in campo dal progetto, dopo questo ci si danno altri due- tre incontri per conoscere la situazione e le varie disponibilità e costruire insieme alle persone dei possibili percorsi, dopodiché si attiva il percorso vero e proprio che può avere una durata variabile. Ci sono percorsi che durano soltanto quattro o cinque colloqui e percorsi che durano anche di più.
Alla fine del percorso si fa una valutazione e si tirano un po’ le somme del percorso fatto mentre durante si fanno degli incontri di monitoraggio con i servizi che sono intorno alla situazione sempre in accordo con le persone interessate che vanno sempre messe al corrente di tutti i raccordi e le informazioni che gli operatori condividono tra di loro. Essendo le persone all’interno di misure penali restrittive comunque i percorsi di aiuto e in particolare i percorsi di aiuto psicologici sono soggetti ai limiti della riservatezza chiaramente.
Quali pensi possano essere i risultati?
Innanzitutto ci sono dei risultati a più livelli, uno a livello territoriale perché il territorio si organizza affinché le persone con esperienza di detenzione possano essere supportate non solo come dicevo in apertura a trovare un lavoro, una casa, un inserimento nel volontariato, ma anche per sostenere le proprie relazioni familiari. I nostri contesti di vita principali sono la famiglia, la scuola per chi è in età scolastica, il lavoro e le relazioni sociali, perché non dovrebbe essere così anche per chi è in esperienza di detenzione?
Anzi forse a maggior ragione lo è, quindi il fatto che un territorio si organizzi per dedicare attenzione, risorse, interventi e competenze anche alla cura dei legami familiari nel caso di detenzione credo che sia un risultato per cui, per esempio, i genitori di persone detenute che si trovano molto spesso soli a sostenere il carico delle responsabilità dovute al mandare avanti i figli e la famiglia da soli senza l’altro genitori possono sentirsi meno soli nell’affrontare questo. Sentire che c’è un progetto che, nonostante l’altro genitore sia in carcere, li possa aiutare a sostenere il carico che gli deriva dal crescere i figli da soli.
L’altro risultato è quello di creare una linea di continuità tra gli interventi che, ad esempio, la collega Stefania fa dentro il carcere e gli interventi che si possono fare fuori dal carcere una volta che le persone sono uscite, quindi creare delle connessioni perché l’esperienza di carcerazione non sia un interruttore che si spegne rispetto alla cura delle relazioni familiari, ma che possa essere un’esperienza non di interruzione dei rapporti, ma sicuramente di maggiore difficoltà. I risultati possono andare anche nella direzione di riduzione della conflittualità in famiglia che può essere elevata a prescindere, in alcune famiglie, ma che può essere più elevata nella fase di detenzione o anche nella fase di ritorno del congiunto a casa.
In questi primi mesi di progetto sono questi i risultati che sto vedendo, la sensazione, la capacità delle persone di non sentirsi soli rispetto a questo, soprattutto quando si tratta di genitori, la riduzione della conflittualità e il sostegno al rientro in famiglia dopo percorsi più o meno lunghi di detenzione. Credo che comunque l’esperienza del progetto sia virtuosa da sviluppare e che per ora sia ben recepita.
Intervista di Martina Ingrassia
L’intervento è realizzato nell’ambito delle iniziative promosse dal Programma Operativo Regionalecofinanziato dal Fondo Sociale Europeo. Per informazioni www.fse.regione.lombardia.it