Organizzare la speranza. Per una «costituente del volontariato». Sostenere le nuove pratiche di solidarietà, civismo, gentilezza
Articolo a cura di Attilio Rossato e Alessandro Seminati
Pubblicato su Animazione Sociale n. 345 del 2021
I giorni dell’emergenza lo hanno dimostrato: ci sono nei territori persone attente a captare situazioni di difficoltà e disposte a mettersi in gioco per alleviarle, gruppi che si occupano di progetti solidali, organizzazioni che si dedicano al bene collettivo… Queste mille disponibilità sono un segno di speranza, oggi da riconoscere e sostenere.
“La pandemia, spezzando la catena dell’inevitabile e inserendo esperienze inaudite, restituisce agli umani la capacità di pensare l’impensabile”
Alessandro Baricco
“Non voglio perdere ciò che l’epidemia ci sta svelando di noi stessi. Superata la paura, ogni consapevolezza volatile svanirà in un istante – succede sempre così con le malattie”
Paolo Giordano
L’essenziale si è reso visibile agli occhi
La pandemia ha funzionato come il luminol: ha messo in luce aspetti invisibili, eppure essenziali del vivere sociale. Queste evidenze sono particolarmente importanti per chi – come i Csv (Centri di Servizio per il Volontariato) – opera per costruire una convivenza più coesa, innervata da solidarietà e mutualità. Ci soffermiamo su tre evidenze.
- Siamo parte di un ecosistema: sociale e naturale
Il primo aspetto che si è reso visibile è che siamo tutte/i parte di un corpo sociale. La facilità con cui si trasmette il virus incoraggia ogni io a pensarsi appartenente a un noi. «Nel contagio siamo un organismo unico. Nel contagio torniamo a essere comunità» (Giordano P., Nel contagio, Einaudi, Torino 2020). Siamo tutti legati da fili invisibili, tutti parte di un più ampio ecosistema: sociale e naturale. Siamo a tal punto interconnessi che il comportamento di un singolo è decisivo per la salute degli altri («Uno salva tutti», è stato detto). Comportandosi con responsabilità, ognuno contribuisce a frenare il contagio, a evitare il collasso del sistema sanitario, a contenere il numero dei morti. Il comportamento di uno influenza il destino di tutti. E il modo in cui la collettività risponde alla pandemia condiziona la sorte dei singoli («Io sono perché noi siamo»: il principio dell’Ubuntu). Nessuno mai potrà sentirsi al sicuro finché tutti non saranno al sicuro. Il carattere sistemico dell’epidemia sopprime l’idea che esista un luogo dove ripararsi. Questo luogo non c’è: «Pandemia significa infatti che il virus è dappertutto e che non può esistere un luogo sicuro nel quale rifugiarsi» (Recalcati M., Così il nemico invisibile ha cambiato le nostre paure, in «La Repubblica», 21 febbraio 2021). Allora diventa interesse di tutti prenderci cura dello «spazio comune» (e della «casa comune») che abitiamo in condivisione. - Siamo su barche non tutte uguali
Secondo aspetto: la pandemia ha svelato i rischi che corriamo se la coesione sociale è fragile. «Quando sulla società si abbatte un’emergenza, prima che la forza dei singoli è decisiva la tenuta della società. Ma una società tiene se i livelli di disuguaglianza non sono eccessivi. Altrimenti salta il patto sociale e possono innescarsi rivolte» (Camarlinghi R., d’Angella F., Floris F., Per una costituente del lavoro sociale ed educativo, in «Animazione Sociale», 338, 2020). Tutti ricordiamo, a fine lockdown, il timore di assalti ai supermercati, dettati dalla dispe- razione di chi aveva fame, ma non più i soldi per sfamarsi. Mai come nel tempo della pandemia abbiamo potuto vedere quanto profonde siano le disuguaglianze sociali. Non è vero che siamo tutti sulla stessa barca, semmai siamo tutti nella stessa tempesta. E proprio la barca con cui ci troviamo ad affrontarla fa la differenza: chi si trova su una barca ben equipaggiata, avrà più chance; chi su una barchetta fragile, rischierà il naufragio. Fuor di metafora, la possibilità di fronteggiare un evento critico dipende dalle risorse (reddito, metri quadri, device tecnologici, reti di protezione sociale…) che ognuno ha. Si viene più facilmente travolti in una condizione di fragilità economica, sociale, affettiva. E la disperazione può aprire la strada alla rivolta – specie quando ci si ritrova soli e con l’impressione che le conseguenze non pesino su tutti allo stesso modo. Abbiamo dunque capito quanto la coesione sia un bene prezioso. Una società non regge se è troppo disuguale (come si può chiedere alle persone di comportarsi responsabilmente se si sentono abbandonate?), né può dirsi democratica se le disparità sono laceranti. Rammendare i tessuti sociali diventa così oggi una priorità. Lo confermano le stime Istat riferite al 2020, che raccontano di una povertà «pandemica»[1]: perché dilagante e perché effetto della pandemia. - La nostra società ha ancora forti anticorpi sociali
Da ultimo, la pandemia ha mostrato come i territori siano giacimenti di risorse di solidarietà. Nell’emergenza sanitaria e sociale innescata dal virus si sono infatti attivate reti solidali capaci di portare l’aiuto là dove emergeva il bisogno. A dimostrazione che i tessuti sociali dispongono ancora di anticorpi in grado di rigenerare coesione: è la bella notizia di questi tempi bui. Questi anticorpi hanno il volto delle associazioni di volontariato, degli innumerevoli (e spesso silenti) atti di civismo, delle mille forme di aggregazione che già prima della pandemia avevamo rilevato (oltre ovviamente a servizi pubblici, parrocchie, fondazioni, cooperative, circoli…). Questi anticorpi sono una reazione all’individualismo che si rivela ormai atteggiamento inadeguato ad affrontare le sfide che abbiamo davanti. I giorni dell’emergenza lo hanno dimostrato: ci sono persone attente a captare situazioni di difficoltà e disposte a mettersi in gioco per alleviarle, gruppi che si occupano di progetti solidali, cittadini che si dedicano al bene collettivo… Queste disponibilità sono un segno di speranza. E forse è venuto il momento di organizzarla – questa speranza –, di non lasciarla più all’episodicità degli eventi. Nel periodo più acuto – i 57 giorni del primo lockdown – il ritiro dallo spazio pubblico ha comportato la creazione di una nuova vita comunitaria. Tutti, a prescindere dall’isolamento e dal distanziamento fisico, abbiamo riscoperto una genuina attenzione verso l’altro. Ma alla fine della quarantena le vecchie modalità individualiste hanno presto ripreso il sopravvento. Possiamo aspettare la prossima crisi per riscoprirci solidali? Crediamo che i giorni del lockdown, con l’afflato comunitario che hanno fatto emergere, abbiano tracciato la strada. Sono semi di speranza che andranno coltivati, sapendo che «nessun seme si sveglia albero già il giorno dopo». Una società costruita su tendenze atomizzanti non è più sostenibile. È venuto il tempo di organizzare la speranza, sostenendo le energie di legame che si muovono sui territori.
È tempo di una costituente del volontariato
Come il luminol, la pandemia ha dunque permesso di riconoscere le disparità del nostro mondo sociale che prima – da «sani» sprofondati in quell’orizzonte – non riuscivamo a cogliere. Ma ci ha anche consentito di riconoscere quante potenzialità inespresse la società racchiuda, e quanto ampie siano le reti di solidarietà sui territori. Oggi dobbiamo fare tesoro di queste scoperte. È venuto il momento di avviare un ciclo storico nuovo, adottando con convinzione uno «spirito trasformativo».
Anche il volontariato vive un tempo liminale, una fase di passaggio
La crisi – scrivono Mauro Magatti e Chiara Giaccardi – «ci apre uno spazio di libertà: far esistere, a partire da ciò che siamo, che abbiamo imparato, che già esisteva come potenzialità, qualcosa che ancora non c’è». Nasce da qui l’idea di una «Costituente del volontariato».
Anche nei mondi del cosiddetto volontariato– ovvero della solidarietà nelle sue diverse forme: organizzata, informale, spontanea – viviamo un tempo liminale, di passaggio. Da un lato la grande mobilitazione civica a cui abbiamo assistito, dall’altro la fatica che rileviamo in non poche associazioni, interrogano ogni Csv. Che cosa di «nuovo» dobbiamo riconoscere? Che cosa di «antico» dobbiamo sostenere? Il termine «Costituente» rimanda alla volontà di avviare una fase nuova, dopo uno shock che ha accelerato consapevolezze e processi di cambiamento. Promuovere una «Costituente del volontariato» significa riscrivere un lessico e una grammatica dell’azione solidale, che poi è il lessico e la grammatica della democrazia.
Quattro ragioni per una Costituente
Quattro ragioni ci spingono a promuovere una Costituente del volontariato:
- rendere visibili e valorizzare gli «anticorpi» sociali che contrastano i virus della solitudine e dell’indifferenza alla sorte dell’altro. Sono antidoti che merita riconoscere, ciascuno nella propria specificità. Nella pandemia è affiorato un rinnovato civismo, un modo di vivere più «contributivo» da parte di individui/gruppi, che si è affiancato all’agire più codificato del volontariato classico;
- costruire una narrazione divergente dei territori, spesso raccontati come non-comunità. In realtà quartieri, paesi, frazioni sono innervati da fili e reti di mutualità. Una narrazione di speranza può allora contrastare le troppe narrazioni tossiche che ci avvolgono, fatte di odio e rancore. E ridare fiducia all’impegno civico e sociale. È il potere performativo dei racconti, che fanno essere la realtà;
- mostrare la resilienza del locale di fronte ai flussi globali. Nel micro la sensazione è quella di subire il macro (pensiamo alle crisi economiche o pande- miche, che si originano altrove ma si scaricano sui territori). In realtà i territori non sono impotenti. Quando le persone cooperano per aiutarsi, diventano resilienti: che vuol dire essere capaci di trasformarsi, non solo di resistere in difesa;
- connettere la molteplicità (altrimenti dispersa) di realtà che vedono nel noi la matrice dell’io. Serve unire le forze se si vuole diventare forza (di cambiamento). Occorre collegare tra loro le mille luci che rischiarano la convivenza, che altrimenti finiscono col percepirsi «oasi nel deserto». A tal fine la Costituente può essere l’occasione per aggiornare la mappa delle tante forme di impegno civile e sociale (a partire dalle ricognizioni di questi mesi, abbiamo provato a comporne una: vedi Box 1).
Sette tipologie di mutualità e solidarietà
Di seguito una mappa della galassia delle forme di mutualità e solidarietà presenti nei territori:
- organizzazioni che si costituiscono attorno ai bisogni legati ai cicli di vita: bisogni di bambini, genitori, anziani… A innescarle è il fatto che le persone, nei loro percorsi biografici, evolvono attorno a bisogni che cambiano. E rispetto a questi bisogni danno vita a gruppalità che permettono di trattarli. Si pensi ai comitati genitori nelle scuole;
- organizzazioni attive nei settori del welfare sociale e assistenziale: anziani, minori, poveri, stranieri… Sono le classiche organizzazioni di volontariato, che in molti casi riescono a garantire servizi strutturati, anche complessi, in partnership con l’ente locale. Hanno approcci orientati all’operatività. A volte faticano a evolvere attorno al cambiamento delle domande che incontrano;
- organizzazioni volte a promuovere una migliore qualità della vita nel quartiere: social street, gruppi di acquisto solidale. Spesso informali, nate dal basso, svolgono attività legate a contesti circoscritti e identificabili. Sono potenzialmente aperte agli altri, ma molto legate ai desideri di chi le traina. Per questo può succedere che nascano e muoiano in relazione alle disponibilità dei loro leader;
- organizzazioni movimentiste, che si costituiscono attorno a temi mobilitanti: l’ambiente, i diritti delle minoranze, le barriere architettoniche… Hanno carattere più politico rispetto alle altre tipologie. De- nuncia, tutela dei beni comuni e cambiamento sono le parole chiave. Puntano a cambiare le condizioni che impediscono la fruizione di diritti fondamentali o la valorizzazione di beni comuni. A tal fine ricercano il dialogo con enti, istituzioni, altre organizzazioni;
- organizzazioni che nascono attorno a passioni, interessi, hobby (musica, arte, tempo libero), che per essere soddisfatti necessitano della partecipazione di altri. Esprimono una mutualità interna legata ai temi della ricreazione, dell’espressività. Come Csv le intercettiamo solo quando chiedono una consulenza per costituirsi in associazione formale;
- società sportive e polisportive. È un mondo che, soprattutto nei piccoli paesi e nei quartieri delle città, assume un importante valore sociale perché incontra situazioni di fragilità, se ne prende cura, fa azioni educative. Il mondo dello sport dilettantistico è ramificato nei tessuti sociali. Meriterà capire come costruire interlocuzioni più approfondite;
- cittadine/i che si attivano in concomitanza di urgenze/emer- genze. Sono persone che di norma non fanno volontariato, né si riconoscono nella categoria del «volontario», ma non per questo sono indifferenti a ciò che accade intorno a loro. Praticano d’abitudine atti di gentilezza e di attenzione al prossimo. Sono le/i cittadine/i, spesso giovani, che si sono messe in gioco nel lockdown: portando la spesa a casa agli anziani, leggendo fiabe per telefono ai bambini…
Le sfide della Costituente
Queste dunque le ragioni che ci portano, come rete dei Csv della Lombardia, a indire una Costituente del volontariato. Ci potremmo chiedere: tocca alla rete dei Csv regionali questo compito? Crediamo di sì: tocca (anche) a noi. In questi anni i Csv non si sono solo occupati di erogare servizi di consulenza, supporti formativi, accompagnamenti progettuali agli enti di volontariato, ma sempre di più hanno assunto la funzione di promuovere lo sviluppo (civile, sociale e culturale) delle nostre comunità. A partire da una convinzione: al volontariato serve un humus per rigenerarsi e questo humus va fertilizzato.
La Costituente vuol essere il momento in cui si fa il punto sulle «energie di legame» che si muovono sui territori. Le abbiamo viste all’opera nella pandemia, sono germogli che vanno coltivati. Il futuro passa da questi gesti di cura, di attenzione. Sono i gesti con cui fabbrichiamo la vita di ogni giorno e che nell’emergenza hanno fatto la differenza. Dobbiamo prendercene cura se vogliamo convertire l’emergenza di oggi in una spinta per la coesione di domani.
Quattro sfide da rilanciare
Attraverso la Costituente intendiamo rilanciare alcune sfide che ci stanno a cuore. Sono piste di lavoro sulle quali sarà necessario incamminarci nel prossimo periodo. Sono l’«eredità buona» della crisi che stiamo vivendo, che se da un lato – come scrivono Magatti e Giaccardi (Magatti M., Giaccardi C., Nella fine è l’inizio, il Mulino, Bologna 2020) – si è rivelata «un microscopio che mette a nudo aspetti che ci sfuggono e che forse non vogliamo vedere» (la metafora del luminol utilizzata in apertura), dall’altro agisce come «un telescopio per guardare più lontano»: al futuro che vogliamo contribuire a scrivere, facendo tesoro degli apprendimenti offertici dalla crisi. Le sfide sono quattro:
- favorire più di prima il lavorare insieme tra diversi;
- partecipare con più consapevolezza alla costruzione del welfare locale;
- riconoscersi come produttori di salute comunitaria;
- rianimare la passione alla partecipazione civile.
1 | Favorire più di prima il lavorare insieme tra diversi
In questi mesi abbiamo toccato con mano quanto sia necessario pensare in termini di «noi». Questa percezione deve ora diventare esperienza trasformativa (di modi di lavorare). È venuto il momento di lavorare insieme più di prima. In territori che si scoprono fragili, si tratta di far convergere energie, saperi, intelligenze verso progetti comuni di convivenza, inclusivi e sostenibili.
Collaborare, cooperare, co-progettare: sono verbi che appartengono al lessico della solidarietà, ma non sempre tradotti in pratica. Uscire dai personalismi per giocare una partita più grande; superare i particolarismi organizzativi per entrare in un network territoriale; allentare la centratura sulla propria sopravvivenza (motore di competizioni distruttive con organizzazioni simili) per posizionarsi su progetti comuni. Passaggi belli a dirsi, ma difficili a farsi.
Esiste anche nel mondo delle associazioni l’individualismo, la difficoltà di lavorare per obiettivi comuni. Nella Costituente vorremmo lanciare la sfida (epocale) di lavorare insieme tra diversi. Diversi magari per storia, sensibilità, stili di lavoro, interessi (ogni gruppo/organizzazione ha esigenze di automantenimento proprie). Ma non così diversi da non poter convergere in un’operazione di «rammendo sociale», come quella a cui siamo chiamati con tessuti sociali che si stanno logorando in modo grave (in alcuni punti lacerando, soprattutto ai margini).
In questi anni i Csv hanno lavorato soprattutto con le organizzazioni di volontariato (Odv) formali. Non sorprende: è il mondo riconosciuto dalla legge 266/1991, che ha fatto nascere i Csv e ha dato loro l’imprinting. Ma oggi, anche alla luce del Codice di Riforma del Terzo Settore (D. Lgs 117/17), siamo sollecitati a costruire connessioni con le altre espressioni di mutualità, cittadinanza attiva, impegno civico. Favorendo quanto la nuova norma pone come obiettivo dei Csv: la centralità del volontario e della sua azione, indipendentemente dalle sue appartenenze.
Il nodo è come costruire relazioni con mondi che hanno codici differenti dalle Odv con le quali abbiamo finora lavorato. Occorrerà liberare lo sguardo da preconcetti; riconoscere che non esiste un modello ideale e poi forme «minori» che si scostano dal modello. Uscendo da visioni precostituite, riusciremo a cogliere la ricchezza delle nuove forme di civismo. E magari a identificare oggetti comuni su cui avviare generative collaborazioni. Altrimenti il rischio è che i Csv non lavorino nei territori «veri», ma si ritaglino territori «propri». Ossia selezionino nella molteplicità solo quella parte di volontariato che sentono più affine a sé.
2 | Partecipare a costruire il welfare locale
Lo stesso atteggiamento di cooperazione dovrà sostenere la costruzione dei welfare locali. Già negli ultimi 20 anni (a partire dalla legge 328/2000 che istituì i Piani di Zona) la co-progettazione è stata identificata come la grammatica della politica locale, ossia del governo territoriale dei problemi. Non sempre però i tavoli di co-progettazione sono diventati luoghi dove pensare insieme il progetto sociale di un territorio.
Co-progettare il welfare locale è la seconda sfida che vogliamo rilanciare alle organizzazioni del volontariato e alla cittadinanza attiva. Rilanciare la co-progettazione chiede di allentare le rispettive autoreferenzialità (che l’hanno spesso degradata a concertazione strumentale o a mera spartizione di risorse ai tavoli locali) e rimettere al centro le fatiche e i desideri di felicità presenti nella quotidianità di tutti.
Sostenere processi di co-progettazione vuol dire lavorare con le istituzioni, gli enti di terzo settore, le fondazioni di comunità, le diocesi, altri attori territoriali (non sono poche le aziende che si stanno convertendo a una vision più sociale) per co-decidere scelte di welfare, come disegnato dal legislatore negli artt. 55-57 del Codice del Terzo Settore. La co-progettazione del welfare è il luogo in cui una collettività legge i suoi problemi e decide come affrontarli.
Nei luoghi della co-progettazione si testimonia il principio che i destini individuali non sono un affare dei singoli, ma interrogano la collettività. Sono i luoghi in cui le realtà di volontariato e di cittadinanza attiva si sottraggono al rischio che sia loro delegata la gestione dei problemi sociali (delega ormai insostenibile). E in cui – come scrive l’art. 3 della Costituzione – si disegna, con tutte le componenti sociali, un fu- turo dove gli ostacoli allo sviluppo delle persone siano rimossi.
Come rete dei Csv della Lombardia assumere questa sfida significa impegnarsi a sostenere nei territori processi di co-progettazione e co-programmazione, ponendo al centro la co-costruzione di conoscenze dei problemi, la co-individuazione delle priorità e delle risorse (disponibili o attivabili), la co-decisione di scelte di politica di welfare locale, recuperando lo spirito della legge 328/2000.
3 | Riconoscersi produttori di salute comunitaria
In questi mesi di emergenza sanitaria, divenuta ben presto eco- nomica e sociale, il volontariato «vecchio e nuovo» è stato anticorpo alle solitudini affettive, alle povertà educative, alle disperazioni materiali. In questo senso è stato produttore potente di salute comunitaria. Ci chiediamo: può essere la «salute della comunità» la cornice in cui inquadrare l’agire mutualistico e solidale?
Da tanti punti di vista la risposta è sì. Prestare attenzione agli altri, praticare prossimità di vicinato, far sì che nessuno sia o si senta abbandonato sono davvero esperienze che fanno bene alla salute di una comunità. Immunitas è communitas: l’immunità di una popolazione (la sua capacità di proteggersi dai rischi del vivere) sta nella forza dei suoi legami.
Contribuire alla tutela e promozione della salute di una comunità: in questa mission si inscrive la terza sfida per i Csv, che non da oggi si riconoscono in un’idea di salute ampia, come la intende l’Oms. Salute non come mera assenza di malattia, ma come dimensione che si fortifica nelle relazioni e si deprime nelle solitudini. Salute che è sempre il prodotto di un intreccio di sanità e sociale. E che non è mai riducibile a una visione organicistica del corpo, ma chiama sempre in causa dimensioni di senso.
In fondo è la sfida della territorialità della salute, la cui importanza abbiamo capito con la pandemia. Per star bene non bastano buoni ospedali e bravi medici. Si sa ormai che l’assistenza sanitaria incide per il 15% sul miglioramento dello stato di salute di una popolazione, per l’85% i determinanti sono fattori sociali: condizione socioeconomica, istruzione, ambiente di vita, alimentazione, reti relazionali… Tutti fattori di cui il volontariato «vecchio e nuovo» si prende cura attraverso le mille azioni della quotidianità.
Pensarsi come co-produttori del benessere di un territorio implica per i Csv connettersi con più organicità dentro il disegno delle «Case di comunità», che sono le nuove forme che sta assumendo la medicina territoriale. Le Case di comunità sono luoghi multidisciplinari che traducono operativamente la multidimensionalità della cura. Vi operano medici di famiglia, infermieri domiciliari, pediatri, specialisti ambulatoriali e assistenti sociali.
Alle Case di comunità potranno collegarsi le associazioni di volontariato per segnalare situazioni (agendo da «sentinelle sociali del territorio») e offrire aiuto a domicilio alle persone più fragili. Sappiamo infatti come la fragilità richieda sostegni e prossimità. Nel documento Una nuova assistenza a domicilio in Lombardia. 10 proposte si legge: «I bisogni delle persone fragili non sono solo sanitari, infermieristici, riabilitativi, ma riguardano sostegni e tutele sociali, legate agli atti della vita quotidiana, sia all’interno che al di là delle mura domestiche».
Le solitudini sono in espansione, specie tra anziani e famiglie mononucleari (a Milano oltre il 60%). E la solitudine rende vulnerabili e ammala. Scrivono Diego De Leo e Marco Trabucchi: «Oltre alla sofferenza psichica, la solitudine rappresenta un serio fattore di rischio per molti problemi di salute fisica. La mancanza di connessioni sociali “di qualità” pone un rischio di morte anticipata simile a quello implicato da arcinoti fattori fisici di rischio come l’obesità e il tabagismo»[2].
Ecco perché i tanti e multiformi anticorpi sociali di cui si è parlato in queste pagine sono agenti di salute comunitaria: perché riannodano legami, riconnettono le persone, contrastano abbandoni e ritiri emotivi. Se la solitarietà (il grado di solitudine di una società) fa star male, la solidarietà (il tasso di attenzione alle vite altrui) fa star meglio.
4 | Rianimare la passione alla partecipazione civile
In questo periodo abbiamo assistito a un risveglio dell’impegno sociale e civile. Come tenere viva questa fiammella? È una questione che ci sta a cuore. Ed è la quarta sfida su cui vogliamo investire nel prossimo triennio.
Da un lato le organizzazioni storicamente attive nei settori del welfare (disabilità e povertà in primis) necessitano di un ricambio generazionale, dall’altro il fermento di partecipazione che si è attivato in questo tempo di pandemia non deve andare disperso.
Come rete dei Csv della Lombardia, ci chiediamo: come trainare la generazione di nuova passione civile da parte dei più giovani? E come favorire la rigenerazione di realtà che sono impoverite da processi di invecchiamento dei loro componenti?
L’invecchiamento dei volontari è una dinamica in atto da anni, ma con la pandemia ha subito una accelerazione. Pensiamo al tema dei gruppi dirigenti delle associazioni; da ormai 10 anni si rileva una difficoltà a promuovere nuova classe dirigente; per di più, il Covid si è portato via non poche figure storiche.
Oppure pensiamo al ricambio generazionale dentro le realtà di volontariato; oggi dobbiamo porci il tema di come queste realtà possano far entrare al loro interno le energie migliori, quelle che portano innovazione, i giovani. Questo ingresso non sta avvenendo, va allora pensato qualcosa di diverso.
D’altra parte viviamo una fase in cui la pandemia ha attivato la partecipazione civile e sociale di cittadine/i in forma singola e associata. Come aiutare queste aggregazioni nascenti a evolvere in senso prosociale, valorizzando l’intuizione che le anima: nessuno basta a se stesso, nessuno si salva da solo?
E ancora: come animare i territori (ossia sviluppare processi di partecipazione intorno a obiettivi percepiti come beni comuni) affinché sempre più cittadini possano vivere la passione per l’impegno sociale e civile? Cosa possono fare i Csv in questa direzione?
È tempo di organizzare la speranza
Le riflessioni di questo documento nascono dal desiderio – come rete dei Csv lombardi – di avviare una riflessione politica sul futuro delle nostre comunità. Comunità che, dopo oltre un anno di Covid, si scoprono ancor più fragili. Con un’incidenza della povertà che è tornata a crescere sia in termini di nuclei familiari sia in termini di individui, soprattutto al Nord – dove si contano oltre 218 mila famiglie in più in condizioni di povertà assoluta rispetto all’anno precedente (circa 720 mila individui).
In qualità di ciò che siamo e rappresentiamo, sentiamo di non poter attendere il corso degli eventi. Oggi, per quanto possibile, si tratta di anticipare. Se da un lato bisogna riattivare meccanismi di inclusione, accelerando una svolta equa e sostenibile dell’economia, dall’altro urge ricostruire il welfare locale, valorizzando l’apporto di tutte le energie sociali così da irrobustire i tessuti comunitari. «Là dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva» ha scritto il poeta Hölderlin. Nei territori, accanto a grandi fragilità, troviamo parti di società civile che sono animate da tensioni valoriali, da utopie di una società migliore, da ricerche di senso nella vita quoti- diana. Il rischio da scongiurare è che queste esperienze perimetri- no il proprio spazio di azione, impedendo di trovare possibilità di lavoro comune. Oggi la questione è far sì che questa «biodiversità»
locale diventi ricchezza per tutti. Compito nostro è assumere questa sfida e capire con quali interlocutori condividerla. Non interessano i bei documenti. Oggi bisogna convocarsi tra forze sociali: l’università, le persone creative, i mondi produttivi, oltre alle amministrazioni locali e al terzo settore. Altri che si pongono le nostre domande e che come noi stanno cercando alleanze. I tempi chiedono di essere più esigenti.
I mutamenti in atto sostengono così una transizione annunciata da tempo: da Centri di Servizio per a Centri di Servizi con il Volontariato. Se il per ci posiziona in una dimensione di erogazione (offriamo servizi a chi li chiede), il con ci sposta in una dimensione di co-costruzione e co-progettazione. È più complicato lavorare con? Diciamo che richiede competenze diverse: chiede di essere proattivi; di interagire con una multiformità non riconducibile a un unicum; di avere in mente la prospettiva (collaborare sì, ma per cosa?).
Va tuttavia detto che la dimensione del per non va in ogni caso persa. Riposizionandosi nel modo che abbiamo provato a delineare in queste pagine, i Csv restano fedeli alla loro funzione di agenzie che hanno a cuore il futuro del volontariato nei territori.
Volontariato inteso come humus culturale prima ancora che come organizzazioni. Come atteggiamento profetico che prelude a un più consapevole rapporto con gli altri. Come dimensione costitutiva del vivere e convivere. Diventano (diventiamo) cioè organizzatori della speranza.
Questo articolo è l’esito di un anno di laboratori formativi e processi di ricerca a cui hanno partecipato, producendone quindi i contenuti, i Presidenti, i Direttori e i Coordinatori d’area dei 6 CSV della Lombardia. Alla redazione del documento hanno contribuito (in ordine alfabetico): Oscar Bianchi, Sara Leidi, Claudia Ponti, Antonio Porretta (Csv Bergamo); Giovanni Marelli, Angelo Patti, Luciano Pendoli, Veronica Sbaraini, Anna Tomasoni (Csv Brescia); Maurizio Ampollini, Alessandra Bellandi, Luigi Colzani, Luca Masera, Martino Villani, Elena Zulli (Csv Insubria); Antonio Aceti, Paola Asti, Luisella Lunghi, Maria Piccio, Paola Rossi, Lorenzo Tornaghi (Csv Lombardia Sud); Francesco Aurisicchio, Patrizia Bisol, Silvia Cannonieri, Marta Moroni, Ivan Nissoli, Marco Pietripaoli, Alice Rossi (Csv Milano); Lucio Farina, Stefano Farina, Margherita Motta, Massimo Pinciroli, Viviana Veltre, Filippo Viganò (Csv Monza Lecco Sondrio).
[1] La crisi ha colpito chi già faceva fatica (nuclei monogenitoriali, famiglie numerose e soprattutto bambini e ragazzi), ma questa volta ha intaccato anche il Nord più ricco. Milano è la città italiana più impoverita dalla pandemia. Oltre 34 mila persone nell’ultimo anno sono cadute in povertà. La capitale del lavoro, da epicentro delle opportunità, si è scoperta cuore delle fragilità. Servirà un surplus di welfare e di solidarietà.
[2] «Chi soffre di solitudine, in termini di accorciamento di durata della vita, è equiparabile a chi fuma ogni giorno 15 sigarette» scrivono De Leo
e Trabucchi in Io sono la solitudine (Gribaudo, Milano 2021). La solitudine è ormai una priorità di salute pubblica. In Gran Bretagna, dove è stato
istituito il «ministero della solitudine» (da noi finora qualche «assessorato alla solitudine»), vi sono medici che prescrivono «ricette sociali», perché sentirsi parte e prendere parte alla vita della comunità è fattore di benessere.