Questo articolo ripropone l’intervento di Stefano Laffi alla conferenza nazionale di CSVnet il 12 ottobre 2018 su come accogliere la sfida di accogliere i ragazzi che si avvicinano al volontariato con una “nuova forma di adesione” dettata dalla voglia di produrre cambiamenti reali, stare bene in gruppo e acquisire abilità.
La principale sfida che oggi abbiamo è capire il punto di vista di chi non è qui, né ci entrerebbe mai. Di chi prova rancore e scontento. Di chi non ha nel suo repertorio di esperienza tutte quelle azioni solidali che voi incarnate. Dobbiamo comprendere come raggiungerlo, coinvolgerlo, dialogarci. È l’unico modo per accogliere questa sfida in modo radicale, anziché semplicemente dirci che siamo bravi, consolarci e riconsolarci ogni volta solo tra noi…
Lo scavalcamento della coda
Una sociologa americana, Russel Hochschild, per studiare il voto a Trump è andata nell’America profonda a capire dove stava il risentimento. Il grande paradosso è infatti che Trump l’hanno votato i poveri. Alla fine della sua paziente indagine, Hochschild afferma di aver rilevato una “sindrome da scavalcamento nella coda”: l’americano che ha votato Trump è quello che a un certo punto ha visto qualcuno messo male come lui che improvvisamente lo scavalca nella coda e ha un vantaggio. Tendenzialmente erano gli stranieri, i neri, insomma coloro che l’americano medio povero percepiva come privilegiati dalle politiche di Obama e dei democratici, e li vedeva avvantaggiati rispetto a sé. Quindi il risentimento e lo scontento non sono tanto verso il potente – tant’è vero che hanno votato Trump: casomai verso il potente hai l’invidia. Il risentimento è verso il tuo simile, che era dietro di te e ti scavalca.
Cambiare le cose, non descriverle
Lavoro in una cooperativa sociale (Codici) che fa ricerca-intervento. Quando andiamo in un territorio – un quartiere, una scuola o una biblioteca – siamo chiamati a cambiare le condizioni, non semplicemente a descriverle. Se vado in un condominio multiculturale di Milano e arrivo declamando le cose che spesso noi sociologi scriviamo, tipo “la diversità è una ricchezza” o “la prossimità è bella”, chi ci abita mi mangia, per così dire… E ha ragione. Io credo che la diversità sia una ricchezza, che la prossimità possa essere veramente bella, ma quando per una anziana signora vedova la prossimità è quella nuova famiglia che non parla italiano e con cui non riesce a stabilire nessuna relazione, non puoi dirgli che la prossimità fa bene e scalda gli animi, perché per lei in quel momento non è così. Non puoi dare per scontati quei principi o quei valori, se l’esperienza diretta stride con essi, devi cambiare quell’esperienza per ritrovarci, una volta mutata, la prova di quanto affermi.
La fatica di capirsi
Le associazioni di volontariato sono state e possono ancora essere luoghi d’incontro fra le generazioni, dove dialogare e immaginare insieme delle cose. Altri luoghi, come la famiglia e la scuola, in questo momento sono in difficoltà: è difficile trovare in esse uno spazio comune di azione immediata, solidale o di altro tipo. Lo stesso sta succedendo in tutte le istituzioni dove le generazioni si trovano faccia a faccia. Il problema non è il conflitto fra giovani e meno giovani, o fra padri e figli: il problema è riuscire a capirsi, è la fatica a trovare elementi comuni in cui prevalga la prossimità.
Questa in cui viviamo è un’epoca di grandi cambiamenti. Di giorno in giorno cambiano i modi della vita quotidiana, gli oggetti, gli strumenti, gli stili. E in tutte le epoche di grandi cambiamenti succede che le generazioni si allontanano le distanze si allungano. Epoche come queste ridividono continuamente il mondo in due, c’è sempre un prima e un dopo: se hai qualche anno in più appartieni a quel prima, mentre chi è subito dopo è molto diverso da te. Questo ci mette in difficoltà, ci crea continuamente l’ossessione di capire come ragionano gli altri, quelli che sono “dopo” una certa cosa. Il mercato ovviamente ci mette del suo, si diverte a segmentarci, a far sì che ciascuno abbia mode e modi diversi di fare le cose, ci atomizza. Lo fa capillarmente, con scienza: non dimentichiamo che per il marketing lavorano gli psicologi.
Nessuno chiede più nulla
Poi ci sono le tecnologie, che promettono di connetterci, ma fanno anche molto altro: costruiscono universi che sono sempre più simili a ciascuno di noi. Gli algoritmi non sono fatti per farci incontrare chi è diverso da noi, ma per confermarci continuamente. Il web, il grande oceano in cui ci si può incontrare fra diversi e scoprire il mondo, è diventato una vasca da bagno. La tua vasca da bagno, dove stanno tutti quelli uguali a te, che la pensano come te. Non è lì che scopriremo chi prova risentimento o rancore o scontento, se guardiamo i nostri canali “social” ci sembreranno tutti solidali e sensibili alle vicende degli altri, eppure…
La grande sfida è costruire un “noi” inclusivo contro questa atomizzazione. Ma come si fa a evitare che ciascuno di noi precipiti nel suo cellulare, il “grande risponditore” a cui stiamo affidando domande e risposte? Alcune educatrici di asilo nido con cui ho lavorato di recente mi hanno raccontato esterrefatte del primo incontro con genitori che gli affideranno i loro figli piccoli: “nessuno ci chiede più nulla”.
Quando una comunità affida tutte le sue domande a Google il dialogo non c’è più, restano solo le rivendicazioni. Le cose che si dicono a scuola e nei servizi sono sempre più rivendicative, perché tutta la parte di immaginazione e di comprensione è stata affidata ad altro, è basata su algoritmi che confermano quello che tu cerchi, che non aprono ma chiudono verso posizioni sempre più rigide e assertive. È così che ci si atomizza. Rivendichi perché hai letto una cosa da qualche parte che ti dà ragione, ma in realtà è quella cosa ti è “venuta addosso” perché i sistemi di ricerca sono fatti per darti conferme.
Presentarsi alzando un muro
In questa situazione costruire dei “noi” è difficile perché chi hai di fronte è già arroccato sulle sue posizioni. E soprattutto non funzionano più gli schemi che usiamo per presentarci. Infatti, cosa fa il presidente di un’associazione quando incontra per la prima volta un pubblico di giovani? Racconta la propria storia, i propri valori, i successi, le vittorie… Ma così non apre una porta, alza un muro. Chi ha 16 anni o 20 anni quando vede questo edificio, che è sempre più grande, ingombrante e lucidato, dice “va bene, ho capito quello che hai fatto; ma io che voglio iniziare, che magari non la penso già come te, che non so ancora cosa pensare del mondo, io qui non entro…”.
Abbiamo la tendenza a pensare che sia vera una sorta di proprietà transitiva: siccome io ho fatto questo e sono il presidente, e sono tuo padre, tu che sei mio figlio, tu che sei appena arrivato qui devi avere gli stessi principi. Come se ci fosse un automatismo, un passaggio di consegne che avviene per semplice adesione, come i cellulari che si trasmettono informazioni contactless: uno si avvicina e improvvisamente dovrebbe essere come te. Solo che non ha mai funzionato così, e meno che mai può funzionare adesso…
Io ho 53 anni: ho fatto un liceo che esiste ancora ma è tutt’altra cosa; la mia università aveva un altro ordinamento; ho fatto l’obiezione di coscienza al servizio militare, che non esiste più; ho cercato lavoro con le pagine gialle; ho mandato una lettera scritta a mano in una busta col francobollo a sei indirizzi. Di cosa sono misura nei confronti di mio figlio? Come faccio a dire “guarda me, guarda la mia storia, la mia esperienza”?
Mandare in onda
Ho fatto per 13 anni il giornalista volontario a Radio Popolare a Milano. Si arrivava la sera, ti davano delle notizie, dovevi imparare a scriverle e poi andavi in onda subito. Radio popolare ha una storia importante di battaglie, di controinformazione, ma a me davano semplicemente un plico di notizie (la macchina dell’Ansa allora era una stampante) e dicevano “mi raccomando, si va in onda alle 22.30 e a mezzanotte e mezza”. E dovevo farlo, perché se non si va in onda a Radio Popolare suona una sirena forte come quella di un’ambulanza, il segnale del buco che devi riempire di parole. O vai in onda, o vai in onda…
È così che funziona l’invito a un “compito di realtà”: poche parole all’inizio, l’essenziale, l’urgenza, la responsabilità. Chi mi dava le consegne poteva avere la mia età, un po’ di più o un po’ di meno, era irrilevante. Contava solo il fatto che certamente quella persona sapeva fare e io in quel momento imparavo. Mi sono trovato per 13 anni a fare questo, e anche ad “arruolare” nuovi volontari che entravano in scena come prima avevo fatto io. La cosa fondamentale era che si andava in onda, che dopo chiamavi gli amici o la fidanzata o i tuoi genitori e dicevi “avete sentito che leggevo le notizie?”
Qualcosa di vero
Credo sia questo ciò che cercano i ragazzi oggi: hanno un enorme bisogno di esperienze trasformative (così le chiamiamo noi quando allestiamo interventi rigenerativi nei quartieri difficili o nelle scuole). Esperienze dove hanno finalmente qualcosa di vero da fare con le loro mani. È il materiale incandescente e prezioso che avete e che i ragazzi vedono in voi. Ed esso rappresenta anche l’occasione, per chi magari arriva provando quel risentimento e quel rancore, di cambiare punto di vista man mano che agisce. Un ragazzo non cambia perché parole pronunciate all’inizio di un incontro gli spiegano che è un punto di vista sbagliato, ma perché lo vive attraverso un’esperienza agita in prima persona.
Si tratta chiaramente di una adesione nuova al volontariato che per le associazioni scompagina le carte. Mentre per Radio Popolare era una questione di appartenenza, questo nuovo agire è senza appartenenza, è una ricerca delle esperienze che consentono di capire chi sei e cosa puoi fare nel mondo con le tue mani, la tua intelligenza, le tue idee. È la tua messa alla prova, la tua chance di protagonismo.
Nuovi modi di guardarsi
Questa prospettiva cambia molto i modi in cui le generazioni si devono guardare l’un l’altra quando si incontrano. Provo a elencare i principali.
1. Il volontariato per i giovani è un mezzo, non un fine. È difficile da accettare, ma stare accanto ai ragazzi oggi significa cambiare il proprio atteggiamento; non immaginare di essere quello che incarna i sogni, i progetti, gli obiettivi di quel ragazzo; o di trovarsi di fronte uno che pende dalle tue labbra. Quel ragazzo, quella ragazza, quel gruppo stanno cercando un’esperienza da fare in prima persona.
2. Il gruppo conta almeno quanto il compito. I ragazzi hanno voglia di stare insieme fra loro: è vero che sono lì anche per raggiungere un risultato, ma soprattutto hanno un enorme bisogno di sentirsi dentro un gruppo in cui si trovano, scherzano, giocano, bevono una birra, con cui escono la sera… Ne hanno bisogno come il pane, perché sono i primi a sapere che non si vive solo di relazioni via web.
3. Lo sviluppo di abilità personali conta quanto l’aiuto prestato. I ragazzi devono capire cosa stanno imparando dall’esperienza che fanno con voi. Per la mia generazione ciò era irrilevante: contava solo aiutare. Oggi i ragazzi vedono forse il volontariato come l’unica vera scuola che gli è rimasta per apprendere certe competenze, perché nella scuola che frequentano la mattina la realtà semplicemente non c’è. Nel senso che tutti i supporti della scuola (le lavagne, i quaderni ecc.) sono a due dimensioni. Puoi solo disegnare la realtà, ma non la vivi, ti manca la profondità, che è la concretezza dell’esperienza. È quindi fondamentale affiancare i ragazzi e le ragazze, e aiutarli a capire cosa stanno acquisendo in quel percorso.
Niente imboscate
4. Il mandato non lo dà il presidente dell’associazione, ma la realtà. Un compito di realtà deriva dall’urgenza di fare qualcosa, non è semplicemente legato al rapporto di potere o a una questione organizzativa. Il senso di quello che fai dipende dalla possibilità di vederne un esito: più questo accade, più il ragazzo ti sta dietro.
5. Non si agisce per senso di appartenenza, ma per l’urgenza dell’azione stessa. È per questo che i ragazzi cambiano spesso gruppi, associazioni, forme di volontariato: perché vedono la possibilità di misurarsi con necessità, compiti e abilità diversi. In una stagione della vita in cui devi scoprire chi sei e di cosa sei capace il cambiamento può essere fondamentale, non è un tradimento o incoerenza, è una strategia intelligente di mettersi alla prova in campi diversi per trovare la propria strada.
6. Le parole vengono dopo l’azione. Nel mondo in cui sono cresciuto si introduceva qualunque azione con discorsi molto lunghi e posizionamenti nello schieramento politico; solo dopo quell’assemblea di tre ore, forse, c’era qualcosa da fare. Mai convocare oggi i ragazzi in questo modo, per loro sarebbe veramente un imboscata… e avrebbero ragione. Il loro messaggio, l’insegnamento che ci danno suona così: fammi prima vedere il senso di quello che fai, la misura in cui possiamo cambiare qualcosa nel mondo; e poi, mentre lo facciamo o quando l’abbiamo fatto, ci costruiamo la didascalia e scopriamo insieme che “la diversità è una ricchezza”.
Il condominio multiculturale
Sono le stesse dinamiche dell’esempio che facevo all’inizio. Come entri in quel condominio multiculturale? Anzitutto risolvi il problema della raccolta differenziata, che lì comporta un conflitto enorme. I sistemi di raccolta cambiano di città in città, anche a me capita di chiedere quando non sono a Milano “da voi come funziona?”. E analogamente cerchi soluzioni ai vari temi di conflitto di vicinato, come manutenzione, spese condominiali, ecc.
Poi crei degli scambi virtuosi fra vicinato, un economia nuova che valorizza tutte le risorse presenti: per esempio il tempo a casa in più di una madre straniera coi figli può essere di aiuto ad un’altra madre che lavora, la quale in cambio l’aiuta con la lingua… Solo alla fine, dopo aver attivato un meccanismo di economia virtuosa e reciproca fiducia, fai una festa. È a quel punto che tutti ti dicono che “è stato bellissimo”, non prima, perché il sociologo pronuncia la formula magica “la diversità è una ricchezza”.
Rielaborare le esperienze
In Lombardia stiamo facendo un percorso di formazione con alcuni centri di servizio per il volontariato affinché diventino luoghi di rielaborazione dell’esperienza dei giovani. Non basta, infatti, fare qualcosa perché diventi un’esperienza: lo diventa se c’è un luogo in cui essa è raccontata e compresa nella sua efficacia. Se si capisce insieme che impatto ha avuto sul territorio e sulla comunità, perché i ragazzi hanno bisogno di sentire che sono diventati più abili, più capaci. Ma anche se si comprendono gli elementi di fallimento, di insuccesso, ovvero ciò di cui i ragazzi hanno un’enorme paura e che la scuola del mattino non consente di fare.
Occuparsi insieme del mondo
Ci è capitato a Codici di curare come ricerca una raccolta di lettere di adolescenti (16-20 anni) di tutta Italia che frequentano l’Agesci, sono lettere in cui si raccontano liberamente a partire da un invito di scrittura: “Quello che dovete sapere di me”. La lettera che chiude il libro (Feltrinelli) dove ne sono state pubblicate un migliaio è di una ragazza di 20 anni: “Io sono colei che ha vissuto una vita da comparsa, una continua e scialba illusione della realtà. Sono quella con un cacofonico casino in testa, un buco di marciume nel cuore, quella che non trova più conforto nelle altre persone né nelle belle parole né in un dio, e l’unica cosa che potrebbe lenire la piaga che sono è questo mondo, quello che stiamo uccidendo, e lo stiamo uccidendo davvero. Non bastano più buoni propositi e pochi sprazzi di eroismo. Siamo già sulla via del non ritorno (…) Come posso essere felice se so già di essere nel mezzo della catastrofe? Se non posso essere felice posso comunque esprimere un desiderio. L’unica vera realtà è la terra, la terra su cui viviamo. Niente dio e niente credo, solo lei. E io voglio fare qualcosa, e voi?”
Così si chiude il libro: un invito di una ragazza di 20 anni a mettersi insieme, non a occuparsi di lei ma, come diceva Hannah Arendt, a occuparsi insieme del mondo.