Oltre l’emergenza sbarchi. Le proposte del non profit per una società più inclusiva
Dati, testimonianze e proposte della società civile sui processi e le responsabilità di accoglienza e inclusione dei migranti in Italia per creare nuovi cittadini anziché ghetti, per tessere legami anziché innescare conflitti
di Caterina Giacometti, CSV Milano
«L’ultimo giorno del 2021 sono effettivamente ospitate nei centri 77.435 persone, a fronte di 97.670 posti a disposizione in 8.699 centri» racconta il nuovo report di Action Aid e OpenPolis “Il vuoto dell’accoglienza”, pubblicato a febbraio 2023 e disponibile al link: Il sistema di accoglienza dei migranti è tutt’altro che al collasso – Openpolis.
Il report porta alla luce la contraddizione che emerge dalla relazione tra questi numeri e la narrazione mediatica e istituzionale del “sistema al collasso”, tornata alla ribalta nelle ultime settimane con l’ultimo episodio di sovraffollamento all’hotspot di Lampedusa.
Sì, l’hotspot è al collasso, e sì, il governo sta predisponendo un piano di trasferimento d’emergenza. Ma è proprio nel concetto di emergenza che risiede il problema delle politiche migratorie e di accoglienza e integrazione in Italia. Come si può accogliere dignitosamente e supportare l’autonoma e indipendente integrazione di nuovi cittadini all’interno delle nostre comunità senza pianificazione e pensiero progettuale?
Abbiamo chiesto a Mediterranean Hope, programma migranti e rifugiati della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, che da anni lavora sull’isola monitorando gli sbarchi e supportando le persone in arrivo, quale sia a loro avviso il motivo per il quale ancora non si è riusciti a trovare un equilibrio di funzionamento per il centro di Lampedusa. Marta Bernardini, coordinatrice del programma, dichiara: «Le persone sono al collasso, non l’isola o l’hotspot. È una frase che ripetiamo spesso, proprio per contrastare una narrativa che spesso banalizza e non rende giustizia al fenomeno migratorio e a quanto succede a Lampedusa. Come Mediterranean Hope viviamo sulla piccola isola siciliana con un osservatorio sulle migrazioni tutto l’anno, dal 2014. E purtroppo – continua Bernardini – assistiamo a una emergenza continua: il problema vero è che migliaia di persone siano ancora costrette ad arrivare via mare, rischiando la loro vita e purtroppo spesso perdendola. Non solo perché, come denunciamo da tempo, l’accoglienza che viene loro riservata non è degna di chiamarsi tale. La struttura dove vengono trasferiti una volta approdati al Molo Favaloro, il piccolo molo di Lampedusa, è inadatta ad ospitare più di trecento persone e invece in alcuni periodi ne ha “accolte” migliaia. Noi – sostiene la coordinatrice di Mediterranean Hope – nel nostro piccolo cerchiamo proprio di “smontare” questo meccanismo per il quale le persone migranti sono considerate un mero problema di ordine pubblico, e non esseri umani. Chiediamo che l’Europa e l’Italia si prendano cura delle persone che attraversano il Mediterraneo. Chiediamo vie di accesso legali e sicure, come i corridoi umanitari che realizziamo insieme ad altre chiese e alla società civile. Chiediamo anche che le ONG possano continuare a fare il loro lavoro, soprattutto là dove non c’è nessun altro a salvare vite in mare».
Al di là dell’umano dolore per la tragedia, potrebbe non stupire quindi il naufragio di Cutro di pochi giorni fa, il quale, ritengono alcuni, avrebbe forse potuto essere evitato se quelle persone fossero state considerate come essere umani invece che come problema di ordine pubblico e di sicurezza nazionale, per riprendere le parole di Marta Bernardini. Identificare l’operazione di recupero della barca alla deriva come “law enforcement” invece che come soccorso in mare potrebbe aver ritardato le operazioni di salvataggio? «Sappiamo, che le autorità italiane ed europee, anche attraverso l’Agenzia europea della guardia di frontiera Frontex, erano a conoscenza della situazione di difficoltà dell’imbarcazione circa 24 ore prima del naufragio e non sono intervenute tempestivamente», si legge in una nota di Asgi, Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, del 27 febbraio (Fermare l’ipocrisia, aprire i confini – Asgi) in cui viene inoltre affermata la necessità «di fermare l’ipocrisia di fingere che il motivo principale delle tragedie nel mar Mediterraneo non sia nelle politiche di chiusura delle frontiere e di esternalizzazione dei confini e del diritto di asilo, ma nei trafficanti di uomini e donne; così volutamente si confondono cause ed effetti anche di quest’ultima strage perché è evidente che il traffico di esseri umani è la conseguenza della impossibilità di esercitare la libertà di movimento delle persone».
Terzo Settore, Società Civile e cittadinanza si sono riuniti a Milano sabato 4 marzo in Piazza Oberdan per manifestare “contro il razzismo delle politiche migratorie dei governi europei”, si legge nell’appello a partecipare. Tantissime le adesioni, tra cui quella del Forum Terzo Settore Città di Milano. Rossella Sacco, portavoce del Forum, spiega cosi l’adesione dell’organizzazione:
«Abbiamo aderito perché è inaccettabile non solo la tragedia in sé, ma anche il palleggiamento delle responsabilità pubbliche che lo hanno permesso. Abbiamo aderito perché vogliamo far cambiare culturalmente la politica dell’accoglienza guardando l’aspetto non solo legale, ma anche umano della persona. Non esiste che ci siano situazioni di questo tipo, e non può essere solo la lacrima del bambino che ci fa volgere lo sguardo verso una modalità di accoglienza cosi aggressiva, non possiamo tutte le volte lacrimare quando succedono queste cose. È doveroso scendere tutti in piazza, ma non solo noi, organizzazioni che da tempo si occupano del tema e si schierano a proposito, altrimenti veniamo subito confusi con chi ha degli interessi. I nostri interessi sono solo quelli della vita umana e della dignità della persona. Aderiamo a questo presidio con il senso forte di una corresponsabilità a cui non possiamo sottrarci. Crediamo – continua la portavoce del Forum di Milano – che la soluzione debba passare per l’apertura di tavoli di discussione anche con le organizzazioni che hanno a che fare con questa materia. Non stiamo dicendo apriamo il varco a tutti, ma non può essere la noncuranza la risposta. È seriamente necessario costituire delle commissioni miste politica – Terzo Settore per affrontare il tema e capire come intervenire mettendo in campo anche le nostre risorse. Certo, non so se è ipotizzabile per tutti all’interno del Terzo Settore, che ha diverse anime, anche più conflittuali. Noi però ci siamo, e lo chiediamo a gran voce».
ETS e gruppi della società civile organizzata ripetono da tempo anche che servono canali di accesso legali all’Italia e all’Europa da affiancare a quello della protezione internazionale per fermare la strage del Mediterraneo, dove dal 2014 ad oggi sono morte più di 25.000 persone. Nel presentare il nuovo Rapporto ISMU sulle Migrazioni 2022 (disponibile a questo link: Ventottesimo Rapporto sulle migrazioni 2022 – Fondazione ISMU), Vincenzo Cesareo, Segretario Generale della Fondazione Ismu, ha in questo senso sottolineato la «cronica incapacità della politica di programmare una gestione ragionata dei flussi regolari. È sempre più evidente che l’immigrazione fornisce un contributo indispensabile per la soluzione dei problemi dell’economia, ma anche della società italiana.
Senza l’immigrazione non potremmo essere quello che siamo oggi. Ma può anche, se non adeguatamente gestita e valorizzata, concorrere ad accentuare questi problemi. Di qui la necessità di individuare delle soluzioni realistiche ed efficaci» attraverso delle «riforme del quadro giuridico e procedurale relativo alla gestione delle migrazioni economiche» (le proposte di Ismu: Libro bianco sul governo delle migrazioni economiche – Fondazione ISMU).
A Milano, Naga e Comunità di Sant’Egidio, da sempre attive sul tema delle migrazioni nel capoluogo lombardo e non solo, da settimane monitorano la complessa situazione venutasi a creare in via Cagni dove ogni domenica notte si ammassano centinaia di persone in attesa di poter accedere agli uffici della questura l’indomani mattina per presentare la propria richiesta di protezione internazionale. Rappresentazione plastica di come i confini possano essere riprodotti ovunque ve ne sia la volontà, ben oltre e al di là delle frontiere formali. Da qualche mese infatti, la questura di Milano ha assunto un nuovo metodo di accoglienza delle richieste di protezione: 120 a settimana, il lunedì, senza sistemi di prenotazione e regolamentazione razionale degli ingressi, ma solo definendo dei numeri per ogni nazionalità. Abbiamo chiesto alle due associazioni cosa stia succedendo e qual è il motivo, a loro avviso, di una gestione di questo tipo. Cesare Mariani, del Naga ci risponde così:
«Sono almeno due mesi che tutte le domeniche una media di 600 persone, a volte anche mille, cercano di fare ingresso in un ufficio che ne fa entrare 120 creando infinite code notturne. Riteniamo che questa gestione sia una scelta consapevole da parte dell’esecutivo, non solo di quello attuale, agita decidendo di non aumentare il personale destinato agli uffici immigrazione delle questure italiane e dedicato alla raccolta delle domande di protezione. Milano è una delle questure che sta agendo un trattamento più feroce nei confronti delle persone, ma il problema delle lunghe attese vale per tutta l’Italia. So di attese per depositare la richiesta di protezione di oltre un anno. Stiamo vedendo grazie ad alcuni contatti dell’associazione che la situazione di Milano si sta creando anche a Roma e a Torino. Draghi aveva rivendicato la scelta di non metterci più risorse dicendo che i soldi non c’erano e che l’Italia di più non poteva fare. Una motivazione contabile, quindi. Noi crediamo che ci sia soprattutto un carico politico che sceglie di rendere ingestibile il fenomeno migratorio per poterlo usare strumentalmente a fini propagandistici legandolo a stretto giro con il tema della sicurezza. Continueremo a monitorare la situazione in via Cagni e insieme a molte altre associazioni e ad alcune delle persone che affrontano le code della domenica notte abbiamo lanciato un appello per un presidio venerdì 11 marzo nei pressi della sede milanese dell’UNHCR per chiedere che si mobilitino a riguardo. È vero che la responsabilità è della questura, ma un presidio lì sarebbe stato necessariamente conflittuale e l’intento invece è che qualcuno si faccia realmente carico della situazione e provi a risolverla».
Stefano Pasta, della Comunità di Sant’Egidio a Milano, riflette in questo modo su via Cagni e su tutto quello che sta occupando le prime pagine dei giornali da giorni: «Le frontiere sono il punto di incontro/scontro tra le persone che migrano senza avere una via legale per entrare e superare i muri, spesso mentali, delle nostre società. Quando parliamo di frontiere, spesso pensiamo a Lampedusa, ora a Crotone, comunque al Sud Italia. Ma via Cagni è una frontiera nello stesso identico modo. Alle frontiere, possiamo renderci conto di quello che non funziona delle leggi nazionali e internazionali. Anche la situazione di via Cagni ci dice che qualcosa non funziona in termini di regolazione dei flussi migratori. Stando sul posto, abbiamo conosciuto molte persone egiziane, persone che sono sbarcate a sud e per tante ragioni non hanno potuto, non sono riuscite, non hanno capito che potevano accedere al sistema di accoglienza e alla domanda di protezione. La situazione di via Cagni – continua Pasta – va guardata anche per questo, per capire quello che non funziona prima di via Cagni, dall’arrivo a sud fino alla questura di Milano. In via Cagni le falle si palesano in tutta la loro evidenza. Non solo; il malfunzionamento inizia ancora prima, sulle coste del Nord-Africa, e della Grecia e della Turchia, su quei barconi. A Milano, abbiamo proposto con grande forza il modello dei corridoi umanitari, diverso sia in termini di arrivo che in termini di accoglienza, più veloce e meno confusa. I corridoi umanitari, che noi organizziamo a nostro completo carico, sono la dimostrazione che è possibile agire legalmente nel quadro giuridico internazionale e costruire un modello di accoglienza meno pericolosa. Quella dei governi europei è una scelta ben precisa».
Legalizzare e diversificare le modalità di ingresso quindi. Ma servono anche soggetti politici e sociali capaci di innescare dinamiche di inclusione e diritto sui territori interni perché le frontiere non si moltiplichino, come spesso accade, anche all’interno delle nostre società. Infatti, mentre le politiche migratorie nazionali sono solitamente fortemente centralizzate data la loro “stretta connessione con le funzioni cardine dello Stato” (Zapata-Barrero e Barker in Hepburn e Zapata-Barrero, 2014: 31), ci si dimentica a volte che il loro contenuto teorico e normativo si traduce direttamente e in maniera concreta su dei territori specifici producendo grossi impatti sociali. Le persone migranti infatti non sono entità astratte, ma corpi e soggettività reali con bisogni e progetti più o meno specifici che si sovrappongono e intersecano con “le politiche locali riguardanti la crescita demografica regionale, i mercati del lavoro territoriali, lo sviluppo economico e, soprattutto, l’offerta di servizi pubblici come la scuola, la salute e la casa” (Hepburn e Zapata-Barrero, 2014: 4). In particolare, la letteratura sul tema fa riferimento alle città come “hub di transito, punti di arrivo e destinazioni ultime dei nuovi migranti: come palcoscenici principali sui e nei quali sperimentare le soluzioni ai problemi che si manifestano sul campo” (Mayer, 2017: 3). “Può essere che siano gli stati a concedere l’asilo” ha affermato Ada Colau, sindaca di Barcellona, qualche anno fa, “ma sono le città che offrono rifugio” (Ada Colau in Eurocities, 2016: 7), confermando quanto affermano la maggior parte degli studi migratori nel sostenere che “le città sono in prima linea nell’organizzare il rifugio per quelli che riescono ad arrivare salvi in Europa e, al tempo stesso, rappresentano gli scenari dove si innescano e giocano nuove forme di relazione tra gli attori del settore pubblico, privato e della società civile” (Mayer, 2017: 14). Al di là delle politiche migratorie infatti, i processi di integrazione delle persone migranti sono prodotti e trasformati dalle relazioni che si giocano sui territori. In questo senso, un incredibilmente vasto numero di attori della società civile organizzata è impegnato nell’organizzare l’accoglienza e permettere lo stare dei cittadini migranti sui diversi territori: ONG, movimenti sociali, istituzioni religiose, sindacati, associazioni di volontariato, sempre più spesso impegnate in servizi quali le scuole di italiano o l’organizzazione di eventi multi-culturali; cooperative e imprese sociali che sono spesso coinvolte nella tenuta del sistema d’accoglienza istituzionale; e migliaia di iniziative spontanee di privati cittadini che, collettivamente o individualmente, agiscono per contribuire all’inclusione dei migranti, solitamente guidati da “un senso generale di responsabilità verso la collettività in cui vivono” (Licursi, 2010: 45) e/o in reazione al continuo aumentare di discorsi e pratiche xenofobe a tutti i livelli.
È grazie a tutte loro, le organizzazioni del Terzo Settore e della società civile che si battono quotidianamente per compensare le inefficienze del sistema e per garantire delle reti locali di supporto ai cittadini migranti a tutela dei diritti fondamentali e nell’offrire possibilità di inclusione, che possiamo ancora alimentare il senso di civiltà nel nostro paese. Quello che emerge dalle riflessioni del Terzo Settore qui condivise, è la necessità che le istituzioni pubbliche a tutti i livelli prendano in seria considerazione la sollecitazione lanciata da Rossella Sacco ed inizino a collaborare con gli ETS e tutti i gruppi della società civile presenti nel territorio nazionale al fine di prevedere dei percorsi di reale co-progettazione della gestione dei flussi, dell’accoglienza e dei processi di integrazione, spogliandosi del timore di risultare deboli e affidandosi a chi, giorno per giorno, ci fa i conti sul serio.
Analogo invito deve necessariamente essere esteso alle organizzazioni non profit che a vario titolo si occupano di migranti e che ad oggi ancora faticano ad interagire in rete tra loro, quindi:
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Riferimenti bibliografici
Eurocities (2016), “Social affairs: Refugees reception and integration in cities”
Hepburn E. e Zapata-Barrero R. (2014), “Introduction: Immigration Policies in multilevel States”, in E. Hepburn e R. Zapata-Barrero [Curato da], “The Politics of Immigration in Multi-Level States. Governance and Political Parties”, Palgrave MacMillan, pp. 3-18
Licursi S. (2010), “Sociologia della solidarietà”, Carocci Editori
Mayer M. (2017), “Cities as sites of refuge and resistance”, European Urban and Regional Studies, 25(3)