Accordo di Parigi, luci e ombre. L’energia pulita è a caro prezzo e nessuno vuol pagare il conto
11 dicembre 2015: una data storica. L’intesa sul clima è approvata da 195 Paesi. Ma adesso è scontro sui vincoli antiemissioni di CO2 e sulla mancanza di leadership
di Paolo Marelli
Il futuro del Pianeta è a rischio e lo scontro continua. L’unica certezza è la data simbolo del 11 dicembre 2015 che segna l’approvazione dell’accordo di Parigi sul cambiamento climatico. Il resto è un valzer di cifre e opinioni, una selva di giudizi pro e contro, una frattura tra il partito degli ottimisti e degli scettici. Di chi lo considera un’iniezione di fiducia, un ottimo punto di partenza, un balzo della speranza. E di chi lo vede già al capolinea, lo ritiene un miraggio, lo reputa l’ennesimo bluff del Nord al Sud del mondo, dei Paesi ricchi a danno dei Paesi poveri. Da quattro anni chi vuole assicurare un futuro alle nuove generazioni celebra questo anniversario, perché è il giorno del passaggio dalle parole ai fatti, è il giorno dell’intesa tra 195 Paesi del mondo che apre al “tempo dell’azione”, all’agire concreto per mantenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto dei 2 gradi centigradi e fa una mossa decisiva nel salvataggio dell’ambiente (vedi il sito della Commissione Europea).
Ecologia, una spinta vale più dei sacrifici
Per questo schieramento, l’11 dicembre è un giorno storico perché i governi finalmente si sono messi in marcia. Infatti, dopo il trattato di Kyoto, pietra miliare nella lotta all’effetto serra, firmato da 35 Paesi, che rappresentavano il 12% delle emissioni globali di anidride carbonica, l’accordo contro il riscaldamento globale uscito dai negoziati della Capitale francese e sottoscritto dal 94% dei Paesi responsabili delle emissioni, è la prova del lungo cammino che ha fatto il mondo, dal 1997 a oggi, nel riconoscere i pericoli del cambiamento climatico.
E un salto in avanti in questa direzione è la Conferenza Onu sui cambiamenti climatici di Katowice (Polonia) nel dicembre 2018, quando sono state concordate le norme per l’attuazione dell’accordo di Parigi. A quattro anni di distanza dal summit tenutosi sulla Senna, nelle due settimane dal 30 novembre all’11 dicembre 2015, Ségolène Royal, ex ministro francese dell’Ambiente e guida del vertice, traccia un bilancio positivo sul cammino avvenuto in seguito a quei giorni perché c’è «una grande voglia di fare a tutti i livelli, dagli Stati ai privati cittadini». Dopotutto «l’ecologia intesa come sacrificio e rinuncia non ha dimostrato di funzionare, poiché non crediamo nel punire per cambiare i comportamenti delle persone. Siamo convinti che l’incitamento sia molto più potente. Infatti, non stiamo assistendo a qualcosa di imposto dall’alto, poiché chiunque può fare la sua parte per combattere il riscaldamento globale». Royal allarga il discorso su clima e ambiente ai circoli virtuosi di un’economica più green: «Le grandi imprese si stanno impegnando a fondo nello sviluppo della sostenibilità. È una svolta». Ricorda come sul piatto di Parigi siano stati previsti 13.500 miliardi di dollari di investimento entro il 2030. «È la cifra che il settore energetico mondiale – conferma Fatih Birol, economista turco e direttore Iea (International Energy Agency) – si è impegnato a spendere per fermare il riscaldamento globale».
Le conquiste ottenute con l’accordo di Parigi prevedono un aiuto economico per quegli Stati che non hanno risorse per combattere il cambiamento climatico; stabiliscono che, a partire dal 2021, si istituisca un fondo di 100 miliardi di dollari annui, che andranno via via crescendo, per il trasferimento delle tecnologie pulite nei Paesi a scarsa industrializzazione; assicurano che tale disponibilità, se non abbatterà il muro tra Paesi ricchi e poveri, proverà comunque ad abbassarlo per agevolare il nuovo flusso di aiuti.
Un vuoto di leadership frena l’Accordo
C’è chi però intravede dietro queste cifre da capogiro una prova del fatto che il patto per il clima con targa transalpina abbia obiettivi ambiziosi ma al contempo metta a nudo come oggi ci siano davvero pochi strumenti operativi a disposizione per passare all’azione. Considerato che l’intesa di Parigi certifica solo promesse volontarie di riduzione della CO2. Impegni che non sono vincoli, sicché non stringenti per far rispettare la mission francese. Allora il dilemma rimane: è realtà o utopia? «La risposta è complessa. Ma poggia su un dato di fatto: bloccare l’aumento della temperatura vuol dire cambiare in modo radicale il nostro sistema produttivo e i nostri stili di vita. Per farlo sono necessari giganteschi investimenti sommati a una straordinaria dose di buona volontà», spiega Marc Fleurbaey, economista con una cattedra a Princeton (Stati Uniti) e autore del “Manifesto per il progresso sociale” contro deregolamentazione, recessione, tensioni sociali, destabilizzazione democratica, guerre nel mondo d’oggi e per una società migliore per le generazioni che verranno.
Le osservazioni di Fleurbaey si intrecciano con le allarmanti previsioni delle Nazioni Unite: le azioni fino ad ora messe in campo dagli Stati consentiranno di raggiungere solo un terzo della riduzione di emissioni che sarebbe necessaria. Emissioni che nel frattempo, dopo tre anni in controtendenza, nel 2017 hanno ripreso ad aumentare in connessione con la crescita economica mondiale. «Nessun Paese europeo – denuncia la rete di ong Climate Action Network – sta facendo abbastanza per ridurre la quantità di carbonio». Nonostante l’Ue abbia approvato un nuovo pacchetto di misure per raggiungere il 32% di energia da fonti rinnovabili entro il 2030. Per tanti c’è il timore che la spinta dell’accordo di Parigi si stia già esaurendo senza produrre risultati significativi concreti, ma anzi pericolosi passi indietro. Per Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu, «a mancare sono la leadership, un senso di urgenza e un vero impegno per una decisiva risposta multilaterale».
La Cina aspira a tirare la corsa, opera e investe parecchio, ma al di fuori della cornice fissata dai parametri delle Nazioni Unite. La posizione degli Stati Uniti è caotica. Al punto che, all’inizio dello scorso maggio, la Camera ha approvato un disegno di legge che intima al presidente Donald Trump di rispettare gli accordi internazionali sul clima e di rientrare nell’accordo di Parigi.
L’Occidente paghi per i suoi consumi
Per il fronte dei critici e degli scettici l’intesa sancita il 11 dicembre 2015, come il passaggio successivo a Katowice, non possono essere affrontati senza tenere conto che «siamo avviati lungo una traiettoria che porta verso un riscaldamento superiore ai tre gradi e forse più, con conseguenze potenzialmente cataclismatiche, in particolare per l’Africa, l’Asia meridionale e il Sudest asiatico – scrive l’economista francese Thomas Piketty sui quotidiani “la Repubblica” e “Le Monde” -. Anche con un accordo ambizioso sulle misure di mitigazione delle emissioni, è già sicuro che l’innalzamento dei mari e l’aumento delle temperature provocherà danni considerevoli in molti di questi Paesi». Se a questo poi si aggiunge che le nazioni ricche «non riescono nemmeno a mettere insieme una somma del genere (appena lo 0,2% del Pil mondiale), allora è illusorio pretendere di convincere i Paesi poveri ed emergenti a fare sforzi supplementari per ridurre le loro emissioni future». «Si sente spesso dire, in Europa e negli Stati Uniti, che la Cina ora è il primo inquinatore a livello mondiale e che adesso tocca a Pechino e agli altri Paesi emergenti fare degli sforzi – continua Piketty -. Dicendo questo, però, ci si dimentica di parecchie cose. Innanzitutto che il volume delle emissioni dev’essere rapportato alla popolazione di ogni Paese: la Cina ha quasi 1,4 miliardi di abitanti, poco meno del triplo dell’Europa (500 milioni) e oltre quattro volte di più del Nordamerica (350 milioni). In secondo luogo, il basso livello di emissioni dell’Europa si spiega in parte con il fatto che noi subappaltiamo massicciamente all’estero, in particolare in Cina, la produzione dei beni industriali ed elettronici inquinanti che amiamo consumare. Se si tiene conto del contenuto in CO2 dei flussi di importazioni ed esportazioni tra le diverse regioni del mondo, le emissioni europee schizzano in su del 40% (e quelle del Nordamerica del 13%), mentre le emissioni cinesi scendono del 25%. Ed è molto più sensato esaminare la ripartizione delle emissioni in funzione del paese di consumo finale che in funzione del paese di produzione». «Per andare sul concreto – prosegue l’economista francese – i circa 7 miliardi di abitanti del pianeta emettono attualmente l’equivalente di 6 tonnellate di anidride carbonica per anno e per persona. La metà che inquina meno, 3,5 miliardi di persone, dislocate principalmente in Africa, Asia meridionale e Sudest asiatico (le zone più colpite dal riscaldamento climatico) emettono meno di 2 tonnellate per persona e sono responsabili di appena il 15% delle emissioni complessive.
All’altra estremità della scala, l’1% che inquina di più, 70 milioni di individui, evidenzia emissioni medie nell’ordine di 100 tonnellate di CO2 pro capite: da soli, questi 70 milioni sono responsabili di circa il 15% delle emissioni complessive, quanto i 3,5 miliardi di persone di cui sopra. E dove vive questo 1% di grandi inquinatori? Il 57% di loro risiede in Nordamerica, il 16% in Europa e solo poco più del 5% in Cina (meno che in Russia e in Medio Oriente, con circa il 6% a testa). Ci sembra che questi dati possano fornire un criterio sufficiente per ripartire gli oneri finanziari del fondo mondiale di adattamento da 150 miliardi di dollari l’anno. L’America settentrionale dovrebbe versare 85 miliardi (lo 0,5% del suo Pil) e l’Europa 24 miliardi (lo 0,2% del suo Pil). Queste conclusioni probabilmente saranno sgradite a Donald Trump e ad altri». Conclude Piketty: «È arrivato il momento di riflettere su criteri di ripartizione basati sul concetto di un’imposta progressiva sulle emissioni: non si possono chiedere gli stessi sforzi a chi emette 2 tonnellate di anidride carbonica l’anno e a chi ne emette 100. Qualcuno obbietterà che criteri di ripartizione del genere non saranno mai accettati dai Paesi ricchi, in particolare dagli Stati Uniti. Ma bisognerà trovare delle soluzioni: non si riuscirà a fare nulla se i Paesi ricchi non metteranno mano al portafogli».
(articolo tratto da Vdossier numero 1 2019)