C’è un vero dibattito pubblico solo se c’è potere d’azione
In Italia via libera a nuove regole: i cittadini potranno dire la loro sulle grandi opere pubbliche. La sociologa Marion Carrel svela i segreti per una partecipazione efficace
di Silvia Cannonieri
Processi partecipativi, confronti e dibattiti con i cittadini direttamente interessati a una questione o a un progetto stanno entrando, un po’ alla volta, a far parte anche delle pratiche in uso nella pubblica amministrazione. Si moltiplicano i dispositivi partecipativi messi in atto al fine di coinvolgere le persone nella discussione di scelte che riguardano la collettività. In Italia, sulla scia dell’esperienza francese, il 24 agosto 2018 è entrato in vigore il “Regolamento sul dibattito pubblico” che, una volta a regime, offrirà ai cittadini nuove occasioni per far sentire la propria voce su questioni connesse alla realizzazione di grandi opere pubbliche.
Marion Carrel insegna sociologia all’Università di Lille 3, nella città a nord della Francia, e da anni si occupa di osservare e approfondire, attraverso la ricerca etnografica, le dinamiche che avvengono nei diversi dispositivi partecipativi messi in atto nei quartieri popolari francesi. Si tratta, a suo parere, di dinamiche partecipative “bricolées”, cioè architettate, costruite e utilizzate da molte équipe di operatori con l’obiettivo di offrire ai cittadini dei luoghi in cui portare all’attenzione delle istituzioni le loro istanze e proposte su temi che impattano sulla loro vita.
La partecipazione, però, è una questione complessa poiché ciascuno di noi vi mette dentro la propria visione e rappresentazione di cosa è una buona democrazia e una buona cittadinanza. Secondo Carrel, «ci sono differenti concezioni o rappresentazioni di ciò che è la partecipazione. Per esempio, la si può concepire come qualcosa di sovversivo che mira a trasformare le istituzioni oppure come un processo volto ad accompagnare le persone a vivere meglio nel loro territorio». E da questo discende una domanda ulteriore: «Bisogna privilegiare la discussione e il dibattito oppure l’azione e la presa di potere?».
Povertà, cittadinanza e il motto di Gandhi
Al cuore di queste diverse rappresentazioni della partecipazione stanno principalmente due concetti, quelli di povertà e di cittadinanza. La storia insegna che in Francia, come in altri Paesi europei, i poveri non erano considerati cittadini né avevano diritto di voto. Quest’ultimo, infatti, era privilegio di chi accedeva al censo, ovvero pagava le tasse e aveva un reddito. Il suffragio universale nelle attuali democrazie risale a meno di un secolo fa, ma tutt’oggi, secondo Carrel, persiste un “censo” nascosto poiché, se è vero che tutti oggi hanno diritto di voto, è parimenti vero che tra coloro che partecipano maggiormente alle prese di decisioni, e tra questi anche i rappresentanti associativi, c’è una netta prevalenza delle persone più istruite e con una condizione socio economica medio alta. Se a questo aggiungiamo il fatto che in Francia, così come in Italia, il rapporto con l’amministrazione pubblica è di tipo piramidale e discendente, risulta evidente quanto sia complesso coinvolgere nei processi partecipativi i cittadini che vivono nei quartieri popolari e in condizioni di marginalità.
Tutto ciò che fate per noi senza di noi, lo fate contro di noi.
Nelle sue lezioni sulla partecipazione, Carrel richiama spesso due frasi di personaggi celebri. La prima è di Gandhi ed è ripresa anche da Mandela: «Tutto ciò che fate per noi senza di noi, lo fate contro di noi».
Un’affermazione che per la sociologa francese può risuonare molto forte al primo impatto, se letta per esempio con gli occhi di un professore o di un operatore sociale che, in virtù di una expertise professionale, mette in campo delle pratiche consolidate, senza consultare i destinatari.
In realtà, a suo parere, evidenzia in modo significativo la “postura” nella quale, inconsciamente, ci troviamo quando dobbiamo affrontare il tema della partecipazione e della cittadinanza, in particolare in relazione a coloro che vi sono più distanti. La seconda frase è del sociologo francese Pierre Bourdieu, secondo cui i poveri non avevano alternative fra il tacere e l’essere parlati, ovvero tra il tacere e l’avere qualcuno che parla al loro posto. A queste due alternative Carrel ne aggiunge una terza, partendo dal presupposto che tutti nella società, anche i più esclusi, hanno l’opportunità di farsi sentire ed essere ascoltati, di partecipare alle prese di decisione, di “prendere potere” su se stessi e sulla propria vita in un’ottica di trasformazione sociale.
Le quattro forme della partecipazione
Nel corso delle sue ricerche, Carrel ha osservato da vicino sei gruppi che lei definisce di “artigiani della partecipazione”, protagonisti di alcuni dispositivi partecipativi messi in atto nei quartieri popolari e meno “politicizzati” di alcune città francesi. In questo suo lavoro sul campo, ha ricondotto i dispositivi osservati a quattro forme di partecipazione, che differiscono tra loro in relazione alla concezione della democrazia da un lato e delle modalità di intervento nei quartieri popolari, dall’altro, che le ispirano. Quattro tipologie di partecipazione che discendono da come le istituzioni si posizionano nella relazione con i cittadini, e viceversa, e dagli obiettivi che intendono raggiungere.
1. La partecipazione inutile
La partecipazione risulta del tutto inutile se si resta nei confini di una concezione rappresentativa della democrazia e non si ritiene di dover tener conto delle differenze e delle specificità delle persone. Le decisioni sono prese dall’alto.
2. L’ingiunzione partecipativa
Per riprendere la definizione coniata da Carrel, è un modo di concepire la partecipazione che considera le persone, in particolare i più deboli, come dei soggetti svantaggiati che devono essere formati. In questi dispositivi partecipativi le persone sono considerate dei soggetti portatori di problemi, che devono essere trasformati per farli divenire dei buoni cittadini, che si arrabbiano nei dibattiti, che non parlano correttamente, che si lamentano sempre e che non sono capaci di vedere l’interesse generale. Più un problema, insomma, che una risorsa. Pur considerando le specificità delle persone, questo approccio non ha un reale obiettivo di democrazia partecipativa o di trasformazione istituzionale. Non mette in discussione le modalità di confronto con i cittadini e di presa di decisione consolidate, non c’è un obiettivo di cambiamento nelle modalità in cui gli operatori o le istituzioni si relazionano e attivano questi processi. Non c’è una visione di intelligenza collettiva. Non c’è consapevolezza della ricchezza che i cittadini, nel confronto e nella discussione tra loro, anche attraverso le critiche, possano portare nel processo decisionale. Questa mancanza di visione si traduce in processi che, pur dichiarandosi partecipativi, altro non sono che “riunioni pubbliche anti pubbliche”, come le definisce Carrel, ovvero in cui i decisori politici o gli operatori presentano dei power point lunghi e noiosi tramite cui mettono in scena le loro competenze, facendo promesse partecipative che poi non vengono mantenute. Premesse istituzionali lunghe, scarsa animazione nella presa di parola, mancanza di metodo, ma soprattutto mancanza di un obiettivo: quello di rendere i contributi dei partecipanti linfa vitale e reale nutrimento per la presa di decisione. Inoltre, le persone sono chiamate a dire la loro a progetto già avviato o spesso in fase finale, quindi quando resta poco da negoziare. Riunioni “anti pubbliche” poiché non creano un reale pubblico e una reale intelligenza collettiva, anzi spesso producono un reciproco rafforzamento degli stereotipi: dei cittadini verso le istituzioni e delle istituzioni verso i cittadini. Per Carrel, quindi, «la partecipazione mal organizzata e mal pensata fa danni superiori al non farla».
3. Lo sviluppo del potere d’azione
Richiama il termine inglese empowerment e considera che la partecipazione sia una questione tanto sociale quanto politica. A differenza della precedente, parte dal presupposto che tutte le persone, a prescindere dalla loro condizione economica e sociale, siano dei cittadini e abbiano delle cose da dire. Magari non si esprimono bene, ma hanno cose da dire. Il problema è che non sono ascoltati. Vi è quindi alla base una visione trasformatrice della democrazia e delle pratiche partecipative secondo la quale il nostro modo di discussione, di dibattito e di presa di decisione potrebbe essere migliorato. Una visione, osserva Carrel, che ha due possibili traduzioni. Può tradursi in lotta, in movimento sociale, può organizzarsi in associazione per poter negoziare e ottenere potere mediatico. Oppure, può aprire a una dimensione partecipativa e deliberativa (deliberazione in sociologia è lo scambio pubblico di argomentazioni) a condizione che non assuma la forma di una ingiunzione partecipativa e che non riproduca nelle pratiche partecipative le asimmetrie e le diseguaglianze sociali.
A condizione, quindi, che le persone siano considerate come cittadini che hanno cose da dire.
4. La partecipazione cittadina
Secondo Carrel è la forma di partecipazione più interessante poiché può tradursi in forme di democrazia diretta e di co-decisione come il bilancio partecipativo, in cui i cittadini hanno un livello di coinvolgimento nella presa di decisione ancora più elevato, purché si definiscano strategie per diversificare la platea dei partecipanti e scongiurare il rischio di riprodurre le disuguaglianze sociali dovute ai meccanismi di auto-esclusione sopra descritti.