Contro il dis-interesse generale. Quando il “vero” non profit risponde ai bisogni dal basso
Benessere delle famiglie e difesa dei beni comuni, così a livello locale si combattono indifferenza e individualismo: le esperienze di due associazioni, modello del “nuovo” volontariato
di Silvia Cannonieri
«Nei nostri territori c’è bisogno di relazioni, prima che di servizi. Le distanze tra le persone, anche vicine, sono spesso “enormi”, per questo è indispensabile creare spazi di condivisione e compartecipazione è un’occasione incredibile. Altrimenti, anche noi rischiamo di diventare dei bravi erogatori di prestazioni, ma a favore di persone che vivono esperienze di profonda solitudine».
Lo sa bene Gilberto Sbaraini, presidente de La Strada, che nasce nel 1980 come associazione di volontariato per rispondere ai bisogni di un quartiere periferico di Milano e nel 1993 dà vita all’omonima cooperativa sociale. La Strada ha scelto di lavorare a stretto contatto con il territorio: «per noi lavorare con le persone significa prendere in considerazione i luoghi che vivono quotidianamente e prima ancora le relazioni che hanno. Le persone non sono monadi, ma hanno intorno tutto ciò che è la loro vita», spiega Sbaraini. Per questo, hanno adottato come filosofia il radicamento nel territorio e il lavoro in rete: «Se ti occupi delle persone, ti accorgi che tu da solo non basti, devi collaborare con altri e valorizzare le risorse che altri hanno e tu non hai». A questo proposito, ci racconta l’esperienza della rete del Corvetto, nata due anni fa in modo informale, che aggrega soggetti eterogenei per tipologia e appartenenza, tra cui alcuni gruppi spontanei, e che promuove nel quartiere iniziative di socialità e valorizzazione del territorio, come la pittura degli esterni del mercato comunale insieme ai bambini tramite la street art, o le iniziative nei cortili.
La rete ha iniziato a darsi degli appuntamenti fissi, a incontrarsi regolarmente e questo ha favorito l’incontro e la conoscenza tra le realtà del quartiere, che continua ad ampliarsi e a intercettare volti nuovi, come ad esempio un gruppo di giovani che ha avviato un piccolo teatro. Il collante attorno al quale la rete costruisce comunità è il territorio, inteso come bene comune, luogo di cui prendersi cura. Secondo Sbaraini, il salto di qualità delle comunità sta proprio nel desiderio di aprirsi, tessere relazioni, incontrarsi, conoscersi, frequentarsi e aiutarsi, creando così esperienze eterogenee e inedite. Sembra scontato, ma non lo è affatto. Quante volte, infatti, abbiamo incontrato associazioni che nello stesso territorio fanno le stesse cose, senza parlarsi o nemmeno conoscersi. Forse, allora, la comunità è quel luogo nel quale si possono fare cose insieme. La Strada è anche coinvolta nella rete della Valle dei Monaci – che ha aggregato numerose realtà attorno all’obiettivo di far rivivere un territorio strategico di Milano – attraverso la realizzazione di un percorso turistico, il “Cammino dei monaci”, che va dal centro della città di Milano fino a Chiaravalle e Melegnano. Il percorso prosegue poi fino al fiume Po dove si ricongiunge con le diverse via francigene d’Europa, per trasformarlo in una nuova opportunità culturale, spirituale, turistica ed economica, per la città metropolitana. Perché trasformare veramente un territorio è possibile solo standoci dentro, abitandolo, condividendo le passioni e i sogni di chi ci abita, a partire dalle fasce più deboli e dai soggetti più nascosti.
Un altro esempio di costruzione di comunità è il quartiere Salomone nel quale tutt’ora La Strada partecipa a un progetto di coesione sociale e socialità di quartiere, il “Progetto Agorà”. La sfida è quella di stimolare e sostenere la voglia di fare degli abitanti, facendo vivere spazi e beni comuni, valorizzando i rapporti di amicizia e vicinato, potenziando associazionismo e volontariato.
Le attività degli anni passati, grazie al progetto “Con-tatto Salomone”, hanno spaziato dal cinema all’aperto a giornate di pulizia collettiva del quartiere, dalle feste di piazza alla gestione di attività per bambini, anziani, persone in cerca di lavoro. I bisogni sono tanti, ma tante sono anche le risorse di chi, nonostante il degrado e le difficoltà quotidiane, scommette sulla costruzione di una comunità più coesa, partecipe e positiva.
Quando il vicinato è condivisione
A Villapizzone, un altro quartiere della periferia milanese, la Comunità di Villapizzone, da 40 anni, e l’associazione Comunità e Famiglia (Acf), nata dopo dieci anni, promuovono stili di vita comunitari volti a ritrovare anche in una metropoli un tessuto di relazioni e di buon vicinato. E non solo a Milano; grazie ad altre otto Acf e all’Aps nazionale Mondo Comunità e Famiglia, ad oggi l’Italia conta 35 comunità di famiglie o condomini solidali. Per Elisabetta Sormani, presidente di Mcf, gli ingredienti per fare comunità sono relazione, fiducia reciproca, condivisione, accoglienza e apertura. Ed è questa idea di comunità che ha dato vita alle loro comunità di famiglie, ovvero gruppi di famiglie e persone che hanno scelto di vivere insieme, rimettendo al centro le relazioni, condividendo spazi, ma anche il denaro attraverso una cassa comune. Senza derogare alla propria privacy, sono persone che ricercano ogni giorno, con entusiasmo ma anche con fatiche, un equilibrio tra lavoro, famiglia, sfera privata che lasci spazio ed energia per coltivare relazioni altre. Dentro come fuori. «È una scelta di vicinato fondato sul sostegno e la fiducia reciproca», sottolinea Sormani, «che non è finalizzata esclusivamente al benessere degli appartenenti a quel determinato gruppo di condivisione o condominio solidale, ma a un bene comune più ampio. Queste esperienze si basano sul fatto che ci si aiuta ad aiutare». Il potere di queste esperienze è che «la condivisione tra famiglie e persone dà come frutto che questa condivisione poi si amplia al territorio poiché le buone pratiche che mettiamo in atto e che ci fanno vivere bene generano uno stile, un modo di relazionarsi in cui prima si ascolta e poi si parla». Una delle spinte propulsive di queste esperienze, infatti, è la consapevolezza che «io non esisto senza l’altro e le scelte che faccio io non interessano solo a me».
Tutto è relazione, in tutti gli ambiti e questo richiama a un senso di responsabilità. La comunità di Villapizzone per esempio è diventata un luogo di partecipazione attorno al quale si aggregano progettualità che mettono al centro l’intero quartiere, attraverso la collaborazione con le altre realtà del territorio e l’attivazione dei cittadini stessi. Con la porta sempre aperta ai più fragili.
Accanto all’esperienza di accoglienza familiare in alcune comunità di famiglie, inoltre, sperimentano anche una forma di accoglienza di adulti, nuclei famigliari in situazioni di fragilità o migranti in appartamenti di “housing sociale” per restituire loro un’oasi di calore famigliare all’interno di percorsi miranti all’autonomia e all’inclusione sociale, per esempio attraverso il progetto “Spazi accoglienti nel Chiostro solidale”. Perché, evidenzia Sormani, «o ci si sbilancia verso chi ha bisogno e ci aiuta a tenere presente cos’è il vero benessere per ogni persona, che dovrebbe essere quello per tutti, o si perde il senso della realtà. L’altro mi aiuta a capire, ad avere il senso della realtà. La cosa che si scopre vivendo in queste realtà è che il tuo star bene nasce anche dallo star bene con gli altri. È nella condivisione e nello scambio che si crea questo benessere. Non solo è un servizio agli altri, è uno scambio». È un movimento di apertura che porta nel territorio un desiderio di relazione con l’altro e genera nuovi processi di condivisione e solidarietà.
Più community hub nel futuro delle città
Due storie che ci raccontano di come le relazioni si stanno riposizionando al centro dei territori. Se ne sono accorti anche i programmi di rigenerazione urbana, ormai consapevoli del fatto che non si riqualificano le periferie senza agire sulle comunità che le vivono. E che occorre prevedere dei luoghi che facilitino la costruzione di comunità. Alcuni progetti, per esempio, prevedono la creazione di community hub, ovvero di spazi che mettono al centro la relazione persone-comunità.
Un gruppo di ricercatori, progettisti di politiche, policy activist, innovatori, che da tempo lavora sul tema della rigenerazione urbana, li definiscono «spazi ibridi, di difficile definizione: fanno inclusione sociale e allevano talenti, generano coesione attraverso la contaminazione. Sono punto di accesso ai servizi di welfare e orientano verso la creazione di impresa. Sono spazi di produzione e di lavoro, che fanno convivere l’artigiano e la postazione per il giovane creativo, la start-up e la cooperativa sociale, il coworking, il fab-lab e l’asilo; la caffetteria e la web radio. Provano a contrastare l’esclusione, generando lavoro». Al contempo, sono «uno spazio simbolico di elaborazione di istanze collettive, capaci di produrre e orientare le opzioni di cambiamento locale. Le comunità si ingaggiano come committenza e motore di processi inclusivi di sviluppo territoriale, a forte base sociale, incardinato sulle agency dei loro membri. Le comunità possono essere di pratica e/o territoriali, ma sono comunità reali, caratterizzate da interazione e costruzione di forme di prossimità nello spazio e nel tempo». A Milano, Cohub aggrega sotto lo stesso tetto diverse realtà che si occupano di sharing economy e rappresenta uno spazio fisico di incontro, formazione e dibattito per tutti i cittadini desiderosi di confrontarsi, promuovere e partecipare ad iniziative collaborative del territorio.
Un nuovo welfare che nasce dal basso
Altro esempio è il programma di rigenerazione urbana “La città intorno” di Fondazione Cariplo, che mette il protagonismo delle comunità e la tessitura di legami al centro di un intervento di rilancio di esprime a partire dalle associazioni, i gruppi informali e le cooperative sociali. Spiega Giuseppe Guzzetti, presidente di Fondazione Cariplo: «La povertà, i problemi legati ai temi del welfare, si sconfiggono con l’analisi del problema e la convergenza di tutti: cittadini, aziende, mondo dello sport possono e devono dare una mano. Non possiamo lasciare che migliaia di bambini non abbiano cibo a sufficienza o che le famiglie non trovino risposte di fronte alla cura degli anziani, all’assistenza dei disabili, all’educazione e alla formazione dei ragazzi. Stiamo dimostrando che possiamo costruire un nuovo modello di welfare che nasce dal basso, dalle persone».
Sulla stessa lunghezza d’onda anche Luigi Bobba. Il “padre” della riforma del Terzo Settore, il sottosegretario al ministero del Lavoro e delle politiche sociali, sostiene che le attività di interesse generale, novità dirimente della Riforma, sono quelle che “hanno a che fare con il bene comune e della comunità”. È per questo che richiamare il concetto di comunità è di fondamentale importanza, e soprattutto, in una società dove ciascuna persona vive immersa in una costellazione di comunità, lo è chiedersi di quali comunità stiamo parlando. Ma le esperienze dei territori ci ricordano che la comunità non esiste di per sé, ma sta nella quotidiana tessitura di legami e nella creazione di relazioni. Ed è proprio su questo che si giocherà la sfida del Terzo settore del dopo Riforma, che, secondo Stefano Zamagni, «avrà come compito la rigenerazione della comunità, lo sforzo costante di “fare luogo”».