Dopo il crack. La ricetta della ripresa: investire nelle passioni e in testimoni non profit
L’economista Gianpaolo Barbetta ritiene che per la crescita del volontariato sia necessario trasmettere con l’esperienza e non con campagne pubblicitarie i valori della solidarietà.
di Elisabetta Bianchetti
Milano, maggio 2010 – Non profit, cooperazione sociale, filantropia, responsabilità economica, mercati equo solidali. Sono alcuni dei temi di ricerca nel ventaglio dei suoi interessi di studioso e professore. Ma Gianpaolo Barbetta, una cattedra all’Università Cattolica di Milano, alla teoria è sempre piaciuto unire la pratica, verificare come la speculazione si traduce nella prassi. E alle lezioni nell’ateneo affianca il suo ruolo all’interno del think tank della Fondazione Cariplo, che gli permette di sperimentare sul campo i suoi studi, fermamente convinto che l’approfondimento dei fatti possa essere utile per definire e mettere a punto le strategie filantropiche dell’ente lombardo.
Da questo suo duplice osservatorio privilegiato, il professor Barbetta disegna la curva del crollo economico globale, le sue ripercussioni finanziarie, occupazionali, sociali, che lambiscono anche il pianeta volontariato.
«Dalla crisi non siamo ancora usciti – spiega -. Di certo ci siamo lasciati alle spalle la fase di drastico peggioramento, che è stata massiccia e prolungata nel tempo. Su quanta strada, però, ci sia ancora da percorrere per uscirne c’è un’assoluta incertezza, al punto che non si sa quanto siamo ancora lontani da una situazione di normalità».
Da che cosa si può dedurre che il peggio è superato? Sulla base di quali elementi possiamo guardare avanti con una timida fiducia?
I segnali sono diversi. Gli indici economici registrano il calo del prodotto interno lordo (Pil) dello scorso anno e il miglioramento (oppure il cessato peggioramento) di alcuni indicatori come la produzione industriale. Da questa analisi sia l’Italia che altri Paesi europei cominciano a mostrare segnali di ripresa. Se, nel corso del 2009, il Pil è caduto del 5% e la produzione industriale ancora di più, nel 2010 i primi dati ci mostrano dei cenni di tiepida ripresa.
Più critica, invece, è la situazione sui dati che fotografano il mercato dell’occupazione, dove siamo ancora lontani da numeri positivi, anche perché l’occupazione reagisce con ritardo rispetto all’aumento del Pil.
Secondo lei, questa crisi economica ha inciso anche sulle relazioni sociali? E se sì, come? Penalizzando quali fasce della popolazione?
Sicuramente ci sono alcune categorie che hanno sofferto maggiormente rispetto ad altre. La crisi non ha penalizzato la fascia degli anziani, che sono stati toccati molto poco. Basti pensare che le pensioni non sono diminuite e che i prezzi sono aumentati in misura minore rispetto agli anni più recenti. L’inflazione non è salita; anzi, in alcuni settori particolari ci sono state delle deflazioni. Quindi tutti coloro che hanno una rendita fissa (ad esempio una pensione) non sono stati toccati particolarmente dalla crisi. Diverso, invece, lo scenario per chi ha perso il lavoro, oppure è finito in cassa integrazione, per coloro che erano in condizioni lavorative fragili; in questo caso la crisi non ha migliorato le condizioni di nessuno. Semmai le ha peggiorate, oppure aggravate in maniera drammatica. Quelli che però stanno soffrendo maggiormente in questa difficile congiuntura economica sono senz’altro i giovani. E, in particolare, coloro che si affacciano solamente ora al mercato del lavoro e si trovano davanti porte chiuse, percorsi molto più selettivi, strade sovente legate a condizioni di precariato.
A suo avviso, il volontariato ha aiutato queste categorie maggiormente colpite dalla crisi?
Il volontariato ha continuato a svolgere il proprio compito, cercando di tamponare al meglio alcune situazioni critiche. È stato in alcune circostanze un discreto ammortizzatore sociale, nella consapevolezza che a una crisi di tale livello non si possa rispondere solo con risorse volontarie ma sia indispensabile il ruolo delle politiche pubbliche. Preziosi sono stati, in questa direzione, il Banco alimentare, la Caritas, le mense dei poveri e il Fondo di solidarietà istituito dal cardinale di Milano, Dionigi Tettamanzi. Tutti questi soggetti, ed altri meno noti, hanno svolto un ruolo di contenimento e di aiuto per i casi più critici. Altre tipologie di volontariato – sportivo, culturale, socio-sanitario – hanno continuato a fare il proprio lavoro di routine. Non hanno preteso di dare delle risposte a problemi che sono difficilmente trattabili con gli strumenti tipici del volontariato. Quindi un ruolo più rilevante, in questa fase, lo hanno svolto quelle strutture tradizionalmente più di tipo assistenziale.
Il volontariato, in questo periodo, lamenta ritardi nei pagamenti da parte degli enti pubblici soprattutto laddove svolge un lavoro di supplenza per servizi. Questa crisi, che ha avuto come risultato anche un taglio nelle risorse dello Stato verso gli enti locali, in qualche modo ripropone il problema del finanziamento del volontariato?
Per principio sono contrario all’eccesso di finanziamento del volontariato, perché se è finanziato che volontariato è? Il ruolo fondamentale del volontariato, nel nostro sistema di Welfare, credo che non debba e non possa essere quello dell’erogazione di servizi in supplenza di altre enti preposti. Tanto più se in sostituzione dell’ente pubblico. Ritengo, invece, che le peculiarità delle organizzazioni di volontariato le debba indurre a svolgere un ruolo differente. Al volontariato spetta un ruolo di animazione della società civile, di ricostruzione delle motivazioni della socialità, della relazionalità comunitaria sui territori, tanto nei piccoli comuni quanto nei quartieri di una grande città come Milano.
Quindi l’erogazione di servizi è più di competenza di altri tipi di organizzazioni del non profit, magari più strutturate per assolvere a questo specifico compito?
Sì, perché il volontario deve occuparsi gratuitamente dei problemi della collettività. Ovviamente quando ci si occupa di tali questioni si possono gestire oppure erogare alcuni servizi, ma non altri che sono più complessi e meno adattai a essere amministrati e guidati dal volontariato. Stabilita questa premessa, resta comunque il fatto che la crisi ha prodotto l’aumento della spesa per alcuni interventi di Welfare, come la cassa integrazione ordinaria o la cassa integrazione in deroga. Questo aumento, in un contesto finanziario difficile, ha portato il governo a contenere altre voci di spesa, ad esempio il Fondo nazionale per le politiche sociali. E se questo periodo di incertezze dovesse protrarsi nel tempo, suppongo che ci sarà un ulteriore taglio alle spese sia nazionali, sia regionali che comunali. Se questo poi si tradurrà in ritardi nei pagamenti dei servizi e delle prestazioni è difficile prevederlo. Di certo, quello che osservo è la tendenza a contenere il più possibile le spese.
Alla luce di queste riflessioni, provando a immaginare il futuro del volontariato, come lo vede?
Vedo un volontariato a due velocità. Da un lato, forte nella capacità di rispondere ad alcuni bisogni; dall’altro estremamente debole per quanto riguarda la capacità di rigenerare le motivazioni dei volontari. Ecco perché ho la sensazione e la percezione che quest’ultimo sia il problema fondamentale che si riscontra sul nostro contesto sociale. Riuscire con i giovani, ma anche con gli adulti e gli anziani, a ridare motivazione, a rivitalizzare, l’esperienza del servizio al prossimo, del donare gratuitamente agli altri. Non si può non notare che siano proprio le motivazioni pro-sociali a venire meno in questo ultimo periodo. E, secondo me, è ancora più grave che nessuno si preoccupi di capire come si possano rigenerare queste motivazioni. A mio parere, chi vive l’esperienza del volontariato dovrebbe trovarsi in una posizione privilegiata per capire come infondere nei cittadini la voglia di occuparsi di se stessi e delle proprie comunità. Vedo un volontariato un po’ disattento da questo punto di vista, che si interroga molto sui ritardi dei pagamenti, sulla professionalizzazione e che invece si interroga poco sul perché i volontari sono sempre più anziani e perché i giovani preferiscono fare altro che non impegnarsi in azioni altruistiche. Questo mi sembra il nocciolo del problema.
È un problema di valori, una questione culturale?
Credo che i valori si trasmettano attraverso l’esperienza e non astrattamente. La motivazione nasce dal vedere persone motivate e non dalle campagne pubblicitarie, di informazione e di sensibilizzazione. Non credo proprio che il volontariato sia un terreno fertile a cui applicare il marketing. Come in una famiglia, sono i genitori a educare i propri figli, a trasmettere loro valori, motivazioni, cultura; allo stesso modo i volontari devono crescere ed educare nuovi volontari in una catena che si allunga nelle pieghe della società e delle sue relazioni. Ovviamente informare e dare conto è sempre utilissimo, però non conterei esclusivamente su questa leva per generare risorse volontarie. Mi affiderei maggiormente sull’esempio, sulla passione, sulla motivazione, sulla testimonianza vissuta e non semplicemente raccontata.