NoTav, Noglobal e gli altri. Il gene del conflitto nel Dna per una crociata antisistema
L’altra faccia della partecipazione: violenti o pacifisti? Legali o illegali? Il sociologo Gianni Piazza analizza il pianeta di comitati e gruppi in campo per una società più giusta
di Silvia Cannonieri
La vita associativa è una delle possibili espressioni della partecipazione, ma di certo non la sola. Ci sono forme partecipative orientate alla dimensione politica, altre a quella sociale. Abbiamo chiesto a Gianni Piazza, professore di sociologia dei fenomeni politici all’Università di Catania e redattore della rivista “Partecipazione e Conflitto”, di aiutarci a fare chiarezza e a inquadrare un’altra forma di partecipazione, quella dei movimenti sociali.
NoTav, Occupy Wall Street, Noglobal sono movimenti che incarnano una qualche forma di partecipazione a una salvaguardia di un bene comune, o di un’idea di società, o di giustizia sociale?
Sono tre movimenti diversi tra loro per dimensioni temporali e numeriche, ma al contempo interconnessi: NoTav dura da circa 20 anni, Occupy Wall Street ha avuto una grande fiammata che si è velocemente affievolita, Noglobal nasce tra il ‘99 e il 2000 e raggiunge la sua massima espansione verso la metà degli anni 2000. Preferisco definire quest’ultimo “Movimento per la giustizia globale” o “Alterglobal” in quanto si opponeva a un certo tipo di globalizzazione, non alla globalizzazione tout court e proponeva di trovare forme di giustizia sociale ed ecologica non confinate a un paese o a un’area geografica specifica, ma di portata transnazionale che andassero oltre le frontiere. Una dinamica diametralmente opposta a quella che i sovranismi attuali propongono di fronte ai processi di globalizzazione, contrapponendo l’apertura e la chiusura delle frontiere. Questi movimenti avevano e hanno tutt’ora un’idea di società diversa. Anche movimenti che sembrano orientati a una causa molto specifica, ad esempio i No Tav, prefigurano dietro al singolo obiettivo dei modelli sociali, economici, di relazione sociale, politica ed economica alternativi. Certo, in alcuni casi vaghi e indefiniti, anche nelle strategie, ma di certo poco compatibili con i modelli esistenti. In linea con tutta la storia dei movimenti sociali in generale, anche questi hanno incarnato forme di partecipazione alternative per chi non era soddisfatto della partecipazione politica convenzionale o tradizionale.
C’è una partecipazione pacifista e una partecipazione violenta?
Più che tra violenta o pacifista, gli studi in materia distinguono la partecipazione latente, cioè quella fatta di orientamenti e di atteggiamenti, da quella manifesta, visibile, fatta di comportamenti concreti empiricamente osservabili. Quest’ultima, a sua volta, si divide in “convenzionale” e “non convenzionale”.
Per convenzionale intendiamo la partecipazione legata al voto, ai partiti e alle campagne elettorali che è prevista dalle convenzioni sociali e normata giuridicamente. Più ampia, invece, è quella non convenzionale che pur non essendo necessariamente illegale non è prevista negli ordinamenti e nelle convenzioni.
Il confine tra le due forme di partecipazione si sposta nel tempo, come mostrano ad esempio gli scioperi, un tempo non previsti dagli ordinamenti e ora considerati pratiche convenzionali, in virtù del diritto di sciopero. Tra le forme di partecipazione non convenzionali possiamo operare un’ulteriore distinzione tra legali, alegali – cioè non previste dall’ordinamento, ma nemmeno vietate – e illegali, ovvero vietate dall’ordinamento. Ma le forme illegali non sono necessariamente violente. Pensiamo ad esempio ai blocchi stradali, alle occupazioni o alle manifestazioni non hanno carattere violento. Certo, all’interno delle forme di partecipazione più radicali ci sono anche quelle violente, laddove si verifichino violenze contro cose o contro persone. Ci sono poi forme di partecipazione che sono etichettate come violente per delegittimarle, penso a un’occupazione universitaria durante un movimento studentesco. Esistono anche delle forme di partecipazione legate alla disobbedienza civile che non sono violente, ma che possono innescare reazioni violente, ad esempio da parte delle forze dell’ordine nel cercare di reprimerle.
Da numerose indagini emerge un drastico calo della partecipazione politica, compensato da un aumento della partecipazione sociale che si esprime ad esempio attraverso la vita associativa. Tra queste due tipologie, dove possiamo inquadrare i movimenti?
Il confine tra partecipazione sociale e politica in molti casi non è ben definito. Per partecipazione politica viene spesso considerata solo quella convenzionale. Sappiamo quanto quest’ultima sia nettamente in calo, ma è controbilanciata proprio da forme di partecipazione politica non convenzionali, quali quelle sopra menzionate. Forme la cui finalità primaria è di influenzare il processo politico, modificare e trasformare le politiche pubbliche. E proprio il carattere prioritariamente politico segna la linea di demarcazione dalla partecipazione sociale. Non ritengo però corretto ritenere la partecipazione sociale avulsa dal processo politico, perché in qualche modo il suo agire ha ricadute politiche, a volte anche sostituendosi alle politiche pubbliche. Forme di civismo o di partecipazione dal basso, come ad esempio il prendersi cura di un bene pubblico, che hanno un carattere sostitutivo rispetto a politiche pubbliche considerate inefficaci o inefficienti. Sono forme di partecipazione che però è bene saper distinguere: in alcuni casi possono contaminarsi, in altre restano circoscritte nel proprio ambito. Un ulteriore elemento distintivo tra i movimenti e la partecipazione associativa è la dimensione conflittuale. Generalmente, infatti, la partecipazione nelle associazioni non ha carattere conflittuale, mentre i movimenti hanno per loro natura una dinamica oppositiva e nascono per contrapporsi a qualcosa. Che sia attraverso forme di partecipazione politica non convenzionale o di partecipazione sociale, di certo siamo in presenza di una crescente capacità e volontà da parte dei cittadini di mobilitarsi e attivarsi in modi alternativi rispetto alla politica tradizionale.
Coloro che partecipano ai movimenti sono dei cittadini attivi?
La definizione di cittadinanza attiva in letteratura, penso a quella di Giovanni Moro, rimanda a una dimensione di partecipazione non conflittuale e perciò distinta da quella che ritroviamo nei movimenti. Se in termini generali è possibile considerare cittadini attivi coloro che si impegnano nei movimenti, occorre tener presente che la cittadinanza attiva ha un suo riferimento empirico ben preciso contraddistinto dall’assenza di conflittualità. Tra il mondo dell’associazionismo e i movimenti possono esserci momenti di sovrapposizione, incroci e contaminazioni in cui anche gruppi che non sono portati ad assumere una dimensione conflittuale inevitabilmente ci si trovano, ad esempio nelle grandi mobilitazioni per la pace e contro le guerre o sulla questione dei migranti. Ma questo non sempre accade poiché l’elemento della conflittualità in genere non è condiviso. Certo i movimenti non si limitano a contrastare decisioni politiche non condivise o politiche pubbliche considerate negativamente, ma in generale hanno anche una dimensione propositiva, che si sostanzia nei tentativi di elaborare proposte specifiche concrete o di immaginare modelli di relazioni sociali. Ne sono esempio i movimenti Alterglobal, la dinamica dei social forum o gli esperimenti di democrazia partecipativa.
Quale relazione intercorre tra partecipazione e protesta? E c’è una differenza, seppur sottile, tra protesta, contestazione e contrapposizione in relazione alla partecipazione?
Se ci riferiamo alla partecipazione politica, allora la protesta è l’altra faccia della stessa medaglia. Quando si partecipa politicamente lo si fa per qualcosa e inevitabilmente anche contro qualcosa o qualcuno. Fa parte di qualsiasi dimensione politica. La protesta è un tipo particolare di partecipazione politica, una forma non convenzionale che esprime disagio, scontento verso decisioni o modelli esistenti e che si manifesta attraverso la rottura della routine quotidiana. Deve avere qualcosa di anomalo, essere subito rilevata mediaticamente e avere un suo grado di notiziabilità, altrimenti è come se non esistesse. La protesta è quindi uno dei modi di fare partecipazione politica. La contestazione e la contrapposizione sono a loro volta delle forme di protesta. La prima nei confronti di qualcosa o qualcuno, di solito delle autorità politiche, come è accaduto in particolare negli anni ‘60 in cui venivano contestate le decisioni politiche, ma soprattutto le autorità che le incarnavano. La contrapposizione non è definibile di per sé: la protesta contrappone dei cittadini, degli attori politici collettivi ad altri per una posta in gioco che loro considerano importante, ma da punti di vista e interessi diversi. E’ un modo di esprimere il conflitto, che è una parte inevitabile della nostra società.
Come è cambiata la partecipazione ai movimenti nel corso degli anni?
Negli ultimi anni si è diffusa una forma di partecipazione collettiva fortemente individualizzata, facilitata dall’avvento del web. Negli anni ‘60 la partecipazione non convenzionale nei movimenti era una partecipazione collettiva collettivizzata, cioè ci si impegnava nei movimenti perché si faceva parte di un gruppo che fosse un collettivo, un’associazione, un partito o un’organizzazione, mentre nell’ultimo periodo si rileva una tendenza a partecipare a forme d’azione collettiva, ma in modo individuale, quindi senza far parte di un gruppo specifico. Ne è un esempio il “clickactivism” che si sostanzia nel mettere “mi piace”, nel firmare petizioni e più in generale nel dare il proprio sostegno, anche tramite un contributo economico, a una campagna di protesta, a una campagna di solidarietà o a una forma associativa, ma che esprime una dimensione di impegno più leggera e fortemente individuale. Una forma di partecipazione diversa da quella di matrice collettiva che avveniva, in passato, all’interno di gruppi più o meno organizzati.
Che relazione esiste tra la partecipazione sociale e il conflitto?
Come detto, la partecipazione sociale si differenzia da quella dei movimenti proprio per la mancanza di una dimensione conflittuale. Talvolta ci sono occasioni di convergenza tra questi due mondi, ma spesso c’è diffidenza poiché non soltanto le forme d’azione e le pratiche sono diverse, ma lo sono i modi stessi di interpretare la realtà e le soluzioni che vengono date ai problemi. Spesso all’interno dei movimenti ci sono delle forme che possono sembrare molto simili a quelle dell’associazionismo e del volontariato, ma in realtà alla base hanno sempre una dimensione politico-conflittuale di denuncia. Ad esempio, fornire un servizio che l’ente pubblico non fornisce o fornisce male, pratica tipica di molte associazioni che sopperiscono alle carenze delle istituzioni, può essere interpretato come intervento sostitutivo, ma anche come un momento di denuncia politica per l’inefficacia o l’inefficienza del pubblico.
La differenza sta nel modo in cui vengono letti i problemi sociali. Ma certamente anche la partecipazione sociale che si esprime nella vita associativa e nel volontariato in molti casi non è esente da una dimensione conflittuale, e lo vediamo ad esempio nelle associazioni che si occupano della tutela dei diritti di alcuni gruppi portando su un piano politico istanze e proposte. Nel momento in cui pensano che questi diritti non siano riconosciuti o vengano negati e di conseguenza ne richiedono la tutela, è inevitabile che in qualche modo aprano al conflitto.
GRANDANGOLO
Donatella Della Porta, Gianni Piazza, “Le ragioni del no. Le campagne contro la TAV in Val di Susa e il Ponte sullo Stretto”, Feltrinelli, 2008