Hikikomori, il non profit primo argine
Rifiutare qualsiasi relazione fuori dalle mura domestiche. Una condizione non classificata come disturbo mentale, ma che affligge oltre 200.000 giovani in Italia. Solo l’associazionismo sta accanto alle famiglie colpite. VDossier ha intervistato Marco Crepaldi, studioso pioniere del fenomeno
di Francesca Valente
Si chiama Hikikomori, termine giapponese che seppur entrato nell’uso da diversi anni, ancora non ha il potere di richiamare alla mente un concetto così delicato e attuale come il “ritiro sociale volontario”, riferito in particolare a ragazzi – maschi – adolescenti. È anche questo a rendere Marco Crepaldi, psicologo sociale, saggista e formatore esperto di questa condizione, un divulgatore fra i più noti e richiesti in Italia (molto frequentato il suo canale Youtube) per analizzare e cercare di arginare il fenomeno.
“Già quando mi ero iscritto a psicologia pensavo a una sua declinazione mediatica, con l’intento di specializzarmi in comunicazione online”, racconta con grande disponibilità, “il primo soggetto ‘hikikomori’ che ho incontrato è stato un personaggio dell’anime giapponese Welcome to the NHK: avevo all’incirca 22 anni ed ero in una fase della mia vita un po’ differente, nella quale ancora non avevo le idee ben chiare su cosa fare. Ammetto che aver trovato dei tratti di quel carattere in parte sovrapponibili con il mio mi ha colpito”.
Da qui, la svolta: dedica la sua tesi di laurea all’analisi approfondita del fenomeno, “che nemmeno la mia relatrice all’epoca conosceva, ricordo che c’erano ancora pochi articoli in circolazione”, si appassiona, si specializza e nel 2012 apre il blog hikikomoriitalia.it con l’intenzione di parlarne – e farne parlare – pubblicamente, vedendosi esplodere il sito in mano nel giro di pochi mesi: “Era diventato un riferimento a livello nazionale, soprattutto per gli stessi ragazzi toccati da questo sintomo, non tanto per venire a chiedere aiuto a noi esperti ma per potersi confrontare tra loro, tanto che c’erano una sezione forum e un blog molto attivi che però poi con il tempo ho deciso di chiudere, perché erano troppo complessi da moderare e si stavano instaurando dinamiche potenzialmente distruttive”. Dai ragazzi, l’attenzione è arrivata poi soprattutto da parte dei genitori, che oggi rappresentano l’80 per cento dei contatti all’associazione omonima e che in oltre 4 mila in Italia partecipano ai numerosi gruppi di auto-mutuo aiuto (che coprono quasi tutte le province d’Italia, ndc) riuniti sotto l’ombrello dell’altra associazione, “Hikikomori Italia Genitori” onlus, composta da un migliaio di iscritti effettivi. “Ai gruppi territoriali, che si riuniscono con cadenza all’incirca mensile, presenziano sempre psicologi formati da noi che vi collaborano in modo volontario, non con l’obiettivo di prenderli in carico ma di renderli parte attiva della soluzione”.
Questo perché il ragazzo Hikikomori – “o ragazza, ma di solito sono soprattutto maschi tra i 20 e i 30 anni, che hanno tendenzialmente una maggiore incompentenza emotiva causata da più fattori quali la biologia, il ruolo di genere imposto loro dalla società, ma anche da una potenziale sovrapposizione di plusdotazione o di autismo ad alto funzionamento” – si isola in casa, ed è proprio tra le mura di casa, oltre che tra quelle scolastiche, che il fenomeno appare più evidente e che il campanello di allarme deve suonare per primo, per poter intervenire quando ancora la fase di isolamento è soltanto un impulso e non una scelta drastica. Proprio perché non etichettata come patologia – anche se vedremo a breve il perché -, è difficile avere dati certi rispetto alla sua incidenza: “Si stima che circa 200 mila giovani soffrano di questa condizione, che diventano mezzo milione se nel ragionamento inseriamo anche le famiglie“. Il profilo non è necessariamente di soggetto depresso, anche perché “il giovane sta bene, meglio nella chiusura in casa. Il problema si lega alla mancanza di emancipazione dalla famiglia”. Come abbiamo detto, il disagio adattivo può essere causato anche da un deficit a livello di competenze socio-emotive, che sono molto più estreme in adolescenza e “possono corrispondere a un quadro neurodivergente. La situazione si può risolvere anche in questo caso, pur richiedendo più tempo. L’alto funzionamento, rispetto al basso, è molto più adattivo, anche perché il basso ha deficit cognitivi. Di solito l’adattamento che si può ottenere è piuttosto alto, con picchi di performatività estrema”.
Ma se l’isolamento è volontario, dunque il ragazzo rifiuta l’aiuto, come inserirsi in questa dinamica? “La consapevolezza spesso arriva dopo anni, quando il problema si è già cronicizzato”, sottolinea Crepaldi, “la prevenzione a livello scolastico risulta fondamentale, perché i casi che vengono presi in carico tra i primi sei mesi e l’anno dal manifestarsi dei primi segnali vengono trattati più facilmente”. L’appello è quello di “scovare i segnali premonitori che possono essere una difficoltà nel relazionarsi con i compagni, come anche nell’accettare le valutazioni della classe, soprattutto se messi davanti a un’aspettativa genitoriale che non si riesce a sostenere o che si sente di non poter soddisfare, e questo vale anche a livello sportivo”. La predisposizione alla dipendenza dalle nuove tecnologie è un altro segnale di concausa, presente spesso e volentieri “anche in virtù del loro particolare neurofunzionamento”. Ovviamente per avere un quadro più preciso bisogna affidarsi al parere di un esperto. Anche perché la sovrapposizione con la fase adolescenziale, rappresentata il più delle volte da un’elevata conflittualità proprio a livello familiare, “non aiuta a focalizzare il problema come tale, portando molti genitori a generalizzare, o a sottovalutare”.
Qual è il percorso? “Genitori e scuola devono costruire assieme un piano didattico personalizzato, cosa che però spesso non viene accettata dai ragazzi, soprattutto se ad alto funzionamento, perché questo rischia di esporli ulteriormente a livello sociale”, prosegue lo psicologo esperto. Uno degli strumenti più efficaci è anche quello di “creare spazi protetti a scuola dove permettere di fare lezione con i propri insegnanti, ma senza il peso di stare in classe. Questo ha il potere di ridurre considerevolmente l’abbandono degli studi, anche perché l’educazione domiciliare non farebbe altro che acuire il problema”.
Ma torniamo al concetto di ‘diagnosi’: “Nella nostra associazione Hikikomori Italia siamo per la maggior parte contrari”, evidenzia Crepaldi, spiegando che “ora è considerata come una sindrome culturale, anche se nulla esclude che il prossimo DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, ndc) possa includerla. Sicuramente favorirebbe l’attivazione di percorsi di presa in carico, il fatto è che creerebbe un ulteriore stigma, un’etichetta ancora più difficile da togliere, anche se paradossalmente ne favorirebbe la presa in carico”, al momento a totale appannaggio di – appunto – famiglie, scuole e professionisti specializzati. “Il lavoro della nostra associazione è proprio quello di fare cultura, oltre che di istituzionalizzare il ‘bisogno educativo speciale‘. Ci sono tanti altri problemi che non sono patologie, ma che grazie ad appositi protocolli possono essere inseriti nel solco di una presa in carico anche da parte del pubblico”, com’è accaduto in Regione Piemonte, come sta accadendo in Sicilia e come potrebbe accadere presto anche in Umbria.
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