I profughi e l’Italia-promessa: richieste d’asilo quintuplicate
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Dalle cause degli sbarchi alle cifre degli arrivi: la fotografia scattata dal sociologo Carchedi. E la sua ricetta anti-flussi, con un “Piano Marshall” per l’Africa
di Francesco Carchedi*
Per definire l’arrivo di flussi di immigrati stranieri in Italia, alcune componenti della destra presenti nella nostra società evocano spesso il concetto di invasione, affermando come un mantra: “A questo ritmo saremo invasi”, “ci stanno già invadendo”, “dobbiamo fermarli in mare, facendo affondare le barche che li trasportano”, ed “insieme a loro anche le organizzazioni non governative, che li aiutano” (poiché collaborano direttamente all’invasione). E non da ultimo “aiutiamoli a casa loro”.
L’Enciclopedia Treccani (sintetizzando) definisce il concetto di invasione come l’ingresso delle forze armate di uno Stato mosso da animus belligerandi verso un altro Stato per compiervi, appunto, un’operazione bellica, continuativa e di natura stabile, mirata a sottrarre il territorio occupato (o parti di esso) alla potestà dello Stato invaso. Il concetto di invasione riman10 settembre 2017 da alla guerra, e dunque, nel caso dell’arrivo di migranti che scappano dai conflitti – anche in altri Paesi limitrofi a quello belligerante – è decisamente fuori luogo, una vera e propria distorsione della realtà fattuale. Cosicché, evocare insistentemente i flussi di migranti come un atto di guerra – da parte di alcuni gruppi politici – serve solamente a produrre/ fabbricare paura e, a creare ad arte – in parti della popolazione italiana (paradossalmente più “fragile”) – apprensione ed ansie di diversa paura e a proporsi come coloro che saprebbero ben bene cosa fare al riguardo. È una semplificazione pericolosa e priva di fondamento che “parla alle pance” e non “alle teste”, poiché si affronta un fenomeno altamente complesso con categorie confuse e irrazionali, invece di affrontarlo con categorie ragionevoli, improntate sulla razionalità. Lo scopo è soltanto quello di riscuotere benefici in termini elettorali, e trovarsi successivamente nell’incapacità di concretizzare quello che si è continuamente blaterato.
Gli effetti delle leggi
Questo richiamo all’invasione da parte dei migranti non è nuovo. Già negli anni ’70, quando le presenze di cittadini stranieri erano appena duecentomila (all’incirca) si iniziò a dire che c’era in corso una invasione, e così per tutti gli anni ’80. Ed anche successivamente, nei decenni successivi. Le norme integrative alla Legge Turco-Napolitano del 1998 (T.U. sull’immigrazione n. 286/98), effettuate da Bossi-Fini (Legge 189/2012), sono state introdotte per fermare l’imminente invasione, producendo invece la perdita delle certificazioni di soggiorno a molti cittadini stranieri. La legge introduceva infatti il principio che poteva restare in Italia soltanto lo straniero che aveva un contratto regolare di lavoro, ma l’effetto – che dura ancora – è stato che, non riuscendo a rinnovare i contratti di lavoro automaticamente, si rimane irregolari. Una legge quindi varata per contrastare l’irregolarità della presenza straniera ha contribuito a produrre maggior irregolarità, poiché molti imprenditori preferiscono ingaggiare lavoratori stranieri in nero piuttosto che in modo formale (che permetterebbe di avere un contratto e dunque un permesso di soggiorno).
Il problema demografico
A parte questa incongruenza delle norme Bossi-Fini, che ancora persistono, invasioni (non solo belligeranti, ma neanche conflittuali in maniera dirompente) nel nostro Paese non se ne sono mai viste, anche perché – e i demografici ce lo spiegano continuamente – le componenti immigrate rinsaldano i ranghi delle nascite non avvenute tra la popolazione autoctona. Il declino demografico che interessa il nostro Paese (ed anche, ad esempio i paesi scandinavi e la stessa Germania) non permette, tra l’altro, la ri-produzione della forza lavoro autoctona, determinando nel tempo delle vacancy professionali, che vengono riempite dalla forza lavoro straniera che si acquisisce sui mercati internazionali.
I demografi stimano che dagli anni ’70 in poi – e quindi fino ad oggi, grosso modo – le non nascite stimate sono state nell’ordine di circa 5/6milioni, tante quanto l’ammontare degli stranieri attualmente presenti nel nostro Paese. E i 60 milioni di abitanti che ha l’Italia attualmente sono composti da circa 54/55 milioni di autoctoni e da 5/6 milioni di “stranieri” (metto le virgolette ironicamente poiché sono in gran maggioranza nuovi cittadini italiani tout court), che nel corso del tempo si sono incorporati nella società in modo tutto sommato lineare (anche se a volte con difficoltà). La governabilità dell’intera popolazione italiana (sia l’una che l’altra componente) va intrapresa facendo perno sulle politiche integrative. Ciò che serve pertanto è un approccio contrario a quello esclusivista, selezionante e fomentatore di conflitti, ovvero: continuare ad analizzare i fabbisogni della componente di origine straniera stabilmente presente (da 40 anni) e dei nuovi flussi migratori, nonché – per questi ultimi – ad individuare le cause che li determinano (almeno quelle più evidenti/comprensibili) e a programmare interventi che mirano progressivamente ad affievolirle e auspicabilmente a ridurne la capacità ri-produttiva (che si determina nei Paesi di esodo). Solo in tal modo è possibile riportarla su dimensioni di reciproca governabilità (e dunque istaurare rapporti paritari con gli Stati da dove si formano gli stessi flussi in maniera adeguata e secondo principi di reciproco rispetto).
Le cause dei recenti arrivi
Le cause, o meglio le concause, degli arrivi sono piuttosto note (ma non gli si attribuisce la giusta dimensione), giacché rimandano, da una parte, alle guerre esplose negli ultimi anni in Medio Oriente (in primis in Iraq e in Siria) e in Libia con la disgregazione politico-sociale ed economica di intere aree geografiche e quindi la fuga di centinaia di migliaia di persone; dall’altro, alla conseguente avvenuta disgregazione di reparti degli eserciti regolari e delle polizie locali (si pensi alla “Guardia repubblicana” di Saddam Hussein da cui sono scaturite tutte le guerre Medio Orientali successive fino alla comparsa di Daesh), e alla successiva collocazione di parti di essi nelle organizzazioni delle milizie belligeranti. Un’altra parte delle stesse sono confluite – o hanno costituito – gruppi criminali organizzati, dando vita anche a sodalizi di stampo mafioso, miranti all’esclusivo arricchimento personale.
Altrettanti gruppi – il cui peso criminale non è facile da circoscrivere – hanno alimentato o hanno costituito, in aggiunta, anche pericolose fazioni di natura terroristica. Un esempio calzante è stata la caduta di Gheddafi e la disgregazione dell’esercito multi-nazionale che aveva costruito per sostenere/rafforzare la sua (intermittente) vocazione panafricana. Questo evento – un copione di quanto accaduto alla “Guardia repubblicana” – è una delle cause che hanno permesso l’infoltimento/rafforzamento delle componenti jidhaiste estremistiche nell’Africa Sub-Sahariana (nel Mali, in Costa d’Avorio, nel Nord-est della Nigeria/Stato del Borno, nella Repubblica Centroafricana e nello Yemen settentrionale) e della loro guerra combattuta contro i rispettivi Stati nazionali. Guerre che necessitano di ingenti somme finanziarie, costringendo così gli Stati che le intraprendono a trasferire dapprima risorse monetarie dai settori civili (welfare, scuola, cultura, etc.) a quelli militari, e successivamente ad indebitarsi con altri Stati a costi usurai.
Nell’uno e nell’altro caso, insomma, le guerre – e i conflitti a forte intensità sociale – in maniera diretta o indiretta continuano a determinare ulteriori disgregazioni sociali e a produrre emigrazioni forzate. Queste sono avvenute – ed ancora avvengono – non solo verso l’Unione europea (e l’Italia, Grecia e Germania in particolare), ma anche verso il Marocco, l’Algeria, la Tunisia, la Giordania, il Libano, l’Egitto e 13 la Turchia meridionale. Questi ultimi Paesi sono tra l’altro quelli che ospitano la maggior parte dei profughi fuoriusciti dalla Siria e dalla Libia (quasi due milioni di unità) negli ultimi cinque anni (gestendo campi profughi molto estesi e con risorse molto minore di quelle messe a disposizione dai Paesi europei, tra cui il nostro). La distruzione di ricchezza economica e del capitale umano correlabile allo stato di guerra (ad alta o bassa intensità), che interessa parti consistenti del Vicino e Medio Oriente, è diventato uno dei più importanti push factors (fattori di spinta) alla base della formazione dei recenti flussi migratori, come non succedeva dal Secondo dopoguerra.
Si stima che la guerra provocata da Daesh abbia creato circa sette milioni di profughi, mentre nella Seconda guerra mondiale i profughi stimati arrivavano a circa 40 milioni, dunque circa 6 volte maggiore. Tra la fine degli anni ’40 e tutti gli anni ’50 gran parte dei Paesi europei avevano al proprio interno “campi profughi” (in Italia erano una decina, tra cui quello di Latina chiuso soltanto alla fine degli anni ’70). Ciò vuol dire, in sostanza, che la capacità di gestire “campi di transito”, “campi di attesa” e “campi profughi” non è nel nostro Paese una competenza sconosciuta, è soltanto una competenza che ad un certo punto si è dimenticata e praticamente persa poiché i campi di raccolta (o di accoglienza) erano oramai non più necessari. E che abbiamo dovuto “reinventare”, nell’ultimo quinquennio, sia la professionalità che la capacità tecnico-amministrativa gestionale. Push factors così imponenti incrementano significativamente la propensione migratoria e di conseguenza la costituzione tempestiva delle componenti migratorie e il loro convulso spostamento forzato, dettato dal principio di sopravvivenza.
Questi flussi si formano, in altre parole, per la mera necessità di auto-proteggersi dai conflitti che direttamente o indirettamente coinvolgono strati differenziati di popolazione, modificandone profondamente il corso di vita ed esistenziale sia individuale che collettivo.
Chi gestisce l’organizzazione dei flussi
La chiusura delle frontiere – e l’idea che l’Europa dovesse diventare una fortezza inespugnabile (appunto agli invasori stranieri) – inizia a divenire una opzione politica-amministrativa dopo l’attentato alle Torri Gemelle di New York (settembre 2001). Agli inizi del Duemila si configurano altresì due modelli di flussi migratori che sino allora non avevano avuto una loro specifica regolazione, basati su alcuni aspetti differenziati dalla volontarietà o involontarietà dell’espatrio o dalla combinazione degli stessi.
Per tali ragioni si riprende – anche a livello normativo, con il Protocollo di Palermo (del dicembre 2000) – la distinzione tra migrazioni volontarie e migrazioni involontarie o forzate, intendendo con le prime quelle di carattere economico o familiare (o di studio), le seconde quelle che si formano a prescindere dalla volontà dei protagonisti, sia per motivi di guerra e sia per motivi di tratta di esseri umani (particolare per donne e minori) e sia per disastri ambientali naturali. Quest’ultima è quella che non trova ancora una sua specifica configurazione, giacché tende a sovrapporsi alla motivazione più classica basata sull’emigrazione per la ricerca e il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro.
Ma con le frontiere chiuse le uniche modalità di espatrio più comuni sono diventate quelle irregolari (che non vuol dire clandestini), perlopiù gestite da organizzazioni criminali specializzate. Per tali ragioni il contrabbando (smuggling) e la tratta di esseri umani (trafficking), esercitati da organizzazioni criminali, rappresentano in questo periodo storico l’unica possibilità reale di fuggire dai teatri di guerra, seppur con palesi difficoltà e pericoli di diversa fattura. Queste società di servizi illegali sono specializzate nella compravendita di speranze migliorative di quanti si trovano in condizioni di sofferenza. La gestione criminale di segmenti significativi dei flussi migratori avviene fin dalla sua formazione nei Paesi di origine – o di prima e seconda immigrazione (come la Libia) – e durante i trasferimenti, che attraversano i Paesi di transito, e nelle diverse modalità con le quali si oltrepassano le frontiere per entrare nel territorio europeo e pertanto italiano (in quanto quest’ultimo rappresenta de facto una “doppia frontiera”). Queste organizzazioni hanno una dimensione transnazionale, in quanto fruiscono di collaborazioni funzionali da parte di nuclei criminali operativi in molti dei Paesi interessati dai flussi. In tal maniera 15 mettono in essere connessioni multi-dimensionali e investimenti di ingenti risorse finanziare, allo scopo di portare a buon fine affari illeciti e perpetuarli nel tempo con guadagni esponenziali.
La gestione diretta di porzioni di questi contingenti di migranti continua da parte delle medesime organizzazioni anche dopo l’avvenuto ingresso in Italia (o in altri Paesi), come continuano le forme di assoggettamento quando vengono fatti entrare capillarmente nel mercato del lavoro nostrano. E, in particolare, in alcuni suoi interstizi dove l’influenza delle organizzazioni sindacali è minore, o – seppur presente – non in grado di rimuovere le dipendenze multiple e assoggettanti che coinvolgono questi stessi lavoratori.
Ma in molti casi la dipendenza è talmente ampia e profonda, che previene insistentemente qualsiasi propensione di particolari gruppi di migranti ad avvicinarsi/interloquire con i presidi sindacali. Anche perché le vittime dei sodalizi criminali – di diversa e variegata ampiezza e configurazione organizzativa – sono in primis i rispettivi connazionali e quindi parti delle comunità di riferimento. Queste bande criminali hanno come riferimento principale le rispettive comunità nazionali di appartenenza: è in queste che attecchiscono e si alimentano, ed è qui che attivano condotte predatorie diffuse e persistenti, è qui che prelevano illegalmente ricchezza (per investirla poi legalmente), ed è qui che occorre una maggiore concentrazione dell’azione sindacale (strutturando a sistema le molteplici esperienze positive già maturate dalle organizzazioni sindacali al riguardo).
I numeri degli ingressi
Le migrazioni – quelle stanziali di lunga durata e quelle più recenti – non sono sovrapponibili, poiché hanno strutture diverse e di conseguenza necessitano di politiche ed interventi di diversa natura. Le prime possono anche non essere più definite migrazioni, data la loro lunga permanenza, e necessitano di politiche maggiormente inclusive per rafforzare la permanenza e permettere – ad esempio – alle discendenze o seconde generazioni di poter svolgere i percorsi di inclusione preposti per i ragazzi autoctoni.
La legge, ad esempio, sul cosiddetto jus soli non solo è uno strumento di integrazione di circa un milione di minori la maggior parte dei quali nati da genitori stranieri, ma anche una potenziale risorsa per l’intera popolazione, data la fragilità della struttura demografica (sopra accennata). E un messaggio forte di vicinanza (e non discriminatorio) con le comunità straniere. Le seconde migrazioni, quelle di nuova costituzione, attualmente perlopiù ospiti nei Centri di accoglienza in numero di circa 120mila (tra i Cas, gli Sprar ed altri Centri), necessitano invece di una attenzione specifica, data la loro vulnerabilità.
Negli ultimi anni l’apprensione derivante dagli arrivi via mare di migranti richiedenti asilo (con le conseguenti morti) – in gran parte partiti dalle coste libiche – è stata molto alta, anche per la modalità mediante la quale avvengono gli ingressi. Occorre però considerare che, come sopra accennato, si tratta di un periodo straordinario dovuto alle guerre in corso. Infatti, i richiedenti asilo che arrivavano in Italia prima del 2011 non superavano le 12mila unità annue, per triplicare l’anno successivo a 37mila con l’innesto di quanti fuggivano dalla Tunisia (dopo la repressione della “Primavera tunisina), per tornare ad una cifra intermedia nel 2013 (con 17mila richiedenti).
Il salto numerico si registra nel 2014, nel 2015 e nel 2016 – e in questo prima metà del 2017 – con un numero di ingressi più alto, rispettivamente, 63.456, 83.870, 123.600 e 100mila. Il totale degli ingressi negli ultimi quattro anni dunque è stato di circa 452mila (a fronte di circa 300mila entrati per la stessa motivazione dal 1990 al 2010, quindi nei venti anni precedenti). La media annuale degli ultimi 5 anni è di circa 74mila richiedenti.
Le motivazioni quindi si sono modificate in modo significativo: prima del 2010 gli ingressi per richiesta d’asilo erano del tutto fisiologici mentre erano molto numerosi quelli per motivi di lavoro, al contrario degli ultimi cinque anni: sono infatti molto alti gli ingressi per motivi di protezione internazionale e numericamente molto più bassi quelli economici.
Il doppio sguardo: Italia e Paesi di esodo
L’insieme di queste riflessioni ci spinge a considerare con molta più attenzione che nel passato che cosa succede nei Paesi di esodo e cosa si potrebbe attivare per creare le condizioni di sviluppo necessario 17 per drenare la formazione dei flussi. Non è un compito facile, ma occorre che si inizi a farlo. Come? Intanto, occorrerebbe ridurre il potere delle compagnie internazionali che operano nei paesi africani, ad esempio nell’area centro-occidentale dell’Africa (che conosco meglio). Ci sono imprese multinazionali (anche sostenute dagli Stati di appartenenza), che di fatto agiscono come se fossimo sempre nel periodo coloniale, poiché impongono ai loro dipendenti salari bassi al limite della soglia di povertà. Al riguardo un economista senegalese (nell’estate 2016) in un convegno sulle migrazioni a Dakar spiegò il meccanismo di spoliazione che subiscono i contadini occupati nel settore agricolo nella produzioni di noccioline. Questi infatti, sono pagati con circa 30 dollari al mese, e avendo una famiglia media di 4/5 persone in sostanza con questo salario non riescono a sostenerla. I sindacati di questi contadini hanno scioperato e l’azienda ha fatto la serrata (cioè ha chiuso l’azienda per settimane). Il sindacato si è appellato al Governo e questo ha intimato alla multinazionale di riprendere l’attività e di soddisfare le richieste di aumento salariale a circa il doppio (cioè a 60 dollari al mese), per permettere al nucleo familiare di potersi sostenere. La risposta è stata negativa e la multinazionale si è appellata ai giudici, ma non a quelli dei tribunali pubblici senegalesi. Ha preteso e ottenuto che fosse un arbitrato internazionale – come previsto dal contratto stipulato al momento del suo arrivo in Senegal – composto da due avvocati nominati dal Governo senegalese e da due nominati dalla stessa multinazionale ed un terzo, in qualità di presidente super partes, nominato a scrutinio segreto da una rosa di indipendenti. Chi ha vinto? Si chiedeva l’economista che raccontava l’episodio. La risposta da lui data è stata: la multinazionale. Infatti, le rivendicazioni sindacali e la presa di posizione del governo senegalese a loro favore non avevano nessun potere, poiché il contratto iniziale prevedeva che per 30 anni i salari dovevano rimanere di 30 dollari al mese e non si potevano modificare se non alla scadenza del medesimo. L’episodio raccontato cadeva al quindicesimo anno, quindi per altri 15 nessuno poteva richiedere integrazioni salariali.
L’Europa e la cooperazione
La presenza straniera in Italia necessita di maggiore attenzione istituzionale per accelerare i processi di integrazione, non perché bisogna privilegiarli ma perché bisogna che raggiungano le pari opportunità con il resto della popolazione italiana, poiché ne rappresentano un componente importante. Solo incorporando queste componenti si può parlare di sviluppo umano e socio-economico, solo elevando queste componenti a cittadini alla serie A (facendoli uscire dalle serie inferiori) è possibile una complessiva ed adeguata convivenza civile, solo riconoscendo lo ius soli ai bambini nati in Italia possiamo sperare in una loro adeguata interazione con i rispettivi coetanei, a prescindere dalla nazionalità originaria dei genitori.
Per quanto concerne i flussi occorre avere la forza di guardare sia all’Italia che ai paesi di origine, ossia laddove si formano concretamente i contingenti propensi all’espatrio. Ed è qui che occorrono interventi forti di cooperazione. Cooperazione che deve assumere, come si sente dire spesso, una sorta di Piano Marshall per l’Africa, ovvero un fondo che deve prescindere dai singoli Stati europei ed assumere una dimensione continentale. È l’Unione europea che deve gestire il Piano (insieme ai Paesi del G7), poiché la responsabilità di quanto accade in Africa non deve lasciarci indifferenti, anche perché, come ci raccontava l’economista senegalese, le multinazionali riescono anche a sopraffare lo Stato centrale.
Questa situazione non va sottovalutata, poiché rende qualsiasi discorso sulla cooperazione riduttivo. Le multinazionali devono essere giudicate da un tribunale internazionale del lavoro sul modello del tribunale dell’Aia sui crimini di guerra, conferendo – ad esempio all’Organizzazione internazionale del lavoro – tale competenza e autorità. Di fatto, o la cooperazione acquista una dimensione decennale – e con risorse finanziarie che qualche parlamentare europeo ha valutato in circa 50 miliardi di euro – con agenzie centralizzate a livello di Unione, oppure i fondi della cooperazione corrente di ciascun Stato non hanno nessuna efficacia.
* Sociologo, esperto di processi di politiche migratorie, collabora con l’Osservatorio dell’IRES nazionale sull’Immigrazione.
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(Tratto da numero 2 di Vdossier anno 2017)