Il volontariato nella socialità ristretta dal virus
Le evoluzioni possibili delle associazioni di volontariato di fronte all’emergenza sanitaria e alla solitudine del nostro tempo sono il tema della “lezione” del sociologo Tommaso Vitale
di Tommaso Vitale, sociologo docente a Sciences Po (Parigi)
Le analisi empiriche e gli studi approfonditi sul volontariato in Italia e in Europa di cui disponiamo sono appassionanti, ricchi, non scontati. Stiamo assistendo a un’accelerazione di dinamiche che già si vedevano in nuce nel decennio precedente (Bonetti & Guidi, 2016). Un volontariato a 360°, sempre più capace di irradiare di forze e di energie ogni settore della nostra vita collettiva. Sempre più efficace, ma anche più esigente in termini di tempo e competenze. Che impegna poche persone, pochi giovani, e che impegna molto chi si impegna (Guidi, et al., 2017). Basato su gruppi ristretti, molto coesi, che si confrontano in maniera positiva e sinergica con i problemi (Zamponi & Bosi, 2018), il volontariato è stato studiato di recente sotto molteplici angoli e punti di vista, non ultimo per le competenze che sviluppa (Ambrosini, 2016), e per la capacità di ridurre le diseguaglianze nella partecipazione politica (Biorcio & Vitale, 2017). La pandemia, tuttavia, ha reso più che mai evidenti due grandi tensioni che attraversano i diversi mondi del volontariato, quella relativa alla trasmissione e quella relativa alla socialità.
Una prima tensione: la trasmissione
Cominciamo dalla questione della trasmissione. I gruppi, formali o informali che siano, fanno. E, nel fare, cumulano esperienza e riflessione. Combinate, esperienza e riflessione creano competenze straordinarie. Così “straordinarie” da diventare difficili da comunicare, laboriose da condividere e soprattutto ardue da trasmettere. I gruppi hanno tendenza a sviluppare leadership molto attente (e giustamente) alla efficacia dell’impegno, sensibili alla qualità dell’azione svolta, attente a non scadere su parametri essenziali di rispetto della dignità altrui e di bellezza & utilità delle azioni svolte (Oosterlynck, et al., 2016). Di fatto, le leadership delle organizzazioni restano assai più impegnate su queste attività che su quelle di trasmissione. I gruppi fanno fatica a aprirsi, a rinnovarsi. I giovani sono lontani, e quando si impegnano, tendono a farlo costituendo nuovi gruppi, spesso senza accompagnamento, e senza approfittare di insegnamenti e strategie frutto di esperienza altrui (Lichterman & Eliasoph, 2014).
La pandemia ha segnato un momento importante di presa di coscienza in proposito, con molte organizzazioni che non potevano più contare su forze volontarie di pensionati competenti, e che hanno cercato di aprirsi a nuove risorse volontarie, anche giovani studenti e lavoratori (Vitale & Recchi, 2020). Il lavoro insieme è stato assai efficace, sia nelle distribuzioni alimentari, che nelle attività di protezione civile, di ascolto dei più fragili, di interessamento a distanza delle persone più colpite dal lockdown. È stato efficace nella maggior parte dei gruppi, ma probabilmente assai più nelle organizzazioni sportive, educative e culturali che non avevano esperienza di azioni solidali verso i più deboli, e che a queste si sono dedicate nell’urgenza. Laddove vecchi e nuovi volontari hanno dovuto imparare insieme nuove modalità di impegno, le cose hanno funzionato particolarmente bene (Vitale, Stasolla, 2020). Nelle organizzazioni tradizionalmente dedite all’azione solidale a fianco dei più deboli, le cose sono andate meno bene: i volontari di lunga data sono venuti progressivamente meno, i nuovi volontari non si sono ben integrati, le attività si sono ridotte, e il senso di sconforto rispetto ai bisogni reali e alla debolezza della risposta ha preso il sopravvento.
Rispetto a questo schema interpretativo dicotomico, si sono ovviamente riscontrate tante eccezioni. Ma nell’insieme, lo schema sembra interpretare una buona parte della casistica empirica. Dietro questa polarizzazione vi è una difficoltà forte dei gruppi di volontariato di giocare la carta della trasmissione, ovverosia di ridurre le proprie attività per dedicare tempo a trasmettere ciò che per i volontari di più lunga data è ormai naturalizzato, implicito, certamente non codificato, in altri termini pressoché scontato.
Più in generale, al di là di ciò che la pandemia può aver reso evidente nel modo di agire delle associazioni a forte impegno volontario, sappiamo che il lato bello del volontariato è fatto di un’azione informale, gioiosa, poco codificata o burocratica (Zimmer & Freise, 2008): questa assenza di codifiche si traduce spesso in un forte problema di trasmissione. Attenzione: si tratta di un problema, non certo di un dilemma insolubile. L’azione informale, attenta alla relazione singolare, radicata in routine complesse non richiede certo di essere codificata e burocratizzata per essere trasmessa. Può essere narrata (Citroni, 2015), condivisa attraverso modalità comunicative affettive e iterattive (Kalla & Broockman, 2020). Non richiede di scrivere mansionari o manuali di procedure. Pur tuttavia, richiede tempo. E anche decisioni esplicite e deliberate. Liberare tempo e risorse per accompagnare nella trasmissione di saperi e stili di gruppo, non è certo cosa da lasciare al caso. Richiede di sacrificare altro, e spinge a pensarci insieme, nel gruppo. La trasmissione non può diventare una mera riproduzione di stili e saperi fissi. Altrimenti rischia di non lasciare margini di azione creativa ai nuovi arrivati, e fissare ciò che fisso non era. Certo, alcuni paletti sono comunque fissi. Gruppi e organizzazioni hanno dei valori costitutivi a cui non vogliono e non devono rinunciare (Nova Le, 2020). Impegnarsi in processi di trasmissione è un’arte. Non un’arte difficile o impossibile, ma certo un’arte, e in quanto tale richiede di essere trattata laddove non si è soliti farlo. Sono in buona misura inutili i saperi finalizzati a far emergere un’azione collettiva là dove non c’è abitudine di lavoro comune. Perché accogliere e valorizzare nuove persone in un’organizzazione che già esiste e già lavora non è proprio la stessa cosa che mettere insieme un nuovo gruppo e creare progetti inediti di impegno. La trasmissione si nutre di accoglienza, interesse e rispetto per i nuovi arrivati, ma non si limita a questioni di apertura. Richiede di apprendere a parlare di sé, di ciò che si fa, di come ci si protegge dal dolore e ci si attrezza per ricavare energia e senso condiviso nella propria azione. Ed è difficile. Per questo le associazioni sportive e culturali che non avevano esperienza di solidarietà e aiuto alimentare si sono così facilmente aperte a nuovi volontari su nuove attività, ma poi non sono riuscite a coinvolgere questi stessi sulle loro attività abituali, finendo per perdere le persone che a loro si erano avvicinate. Ovviamente ha giocato anche l’importanza del settore e del contenuto dell’attività prevalente, ma non solo. Dove andare a imparare per attrezzarsi a trasmettere? Due sembrano essere i modelli più promettenti, uno che ruota intorno a un leader che si dedica alla trasmissione del sapere e del saper fare ai nuovi arrivati, e uno che ruota intorno a un gruppo in cui ciascuno dedica un pezzetto del suo tempo a trasmettere esperienza e cognizione relative all’associazione. Sicuramente ce ne sono altri, che vale la pena cercare di scoprire nei mesi che verranno, ma già esplorare analiticamente questi due modelli di base permette di fare qualche passo avanti. Il primo è forse quello più diffuso, con una persona in carico di accogliere, parlare, condividere, mostrare, accompagnare, “lasciar sbagliare”, indirizzare i nuovi volontari. È un modello semplice, parsimonioso, che risiede nelle competenze relazionali e nella simpatia della persona in carico della trasmissione. È molto economo nel breve periodo, certamente rischioso, non necessariamente efficace. Il secondo modello è quello proprio di organizzazioni che scelgono esplicitamente di aprirsi e trasmettere ai “nuovi” il gusto dell’impegno insieme. Richiede grande coesione del gruppo e rispetto da parte tutti delle decisioni prese. Richiede a tutti disciplina nel gestire il trade-off: liberarsi del tempo per i nuovi, rinunciando quindi necessariamente a forme di aiuto prezioso per le persone e i territori beneficiari.
Ma è estremamente efficace (Saguy & Dovidio, 2013). Apre uno spazio di trasmissione corale, plurale, differenziato, in cui tutti si mettono in gioco con i nuovi. Non solo ad accogliere e lavorare insieme (questo i gruppi di volontariato sanno farlo egregiamente), ma a cercare di condividere i nodi controversi, i trucchetti (nel senso positivo del termine), le questioni tecniche di finanziamento e rendicontazione, i saperi della responsabilità. È un esercizio di condivisione non intimo, forse, ma sicuramente profondo.
Una seconda tensione: la socialità
Veniamo ora al secondo elemento di tensione reso visibile dalla pandemia e che potrebbe accompagnare a lungo le organizzazioni di volontariato. Mi piacerebbe definirla sinteticamente una tensione legata al tema della socialità. Ma, forse, il termine è troppo ampio e generico per prestarsi bene. Se vogliamo adottare il linguaggio concettuale della sociologia potremmo dire che nel volontariato due forme di azione prima abbastanza ben articolate fra loro, con il lockdown sono entrate in tensione: quella dell’azione strumentale e quella dell’azione affettiva. Anche così, non ci intendiamo bene. E invece vorrei evitare i fraintendimenti. L’azione delle organizzazioni e dei gruppi volontari è stata maestra, nelle sue differenze beninteso, di una straordinaria capacità di fare cose concrete (attivare luoghi e iniziative, redistribuire beni e favorire l’accesso a diritti e servizi), e farle insieme a persone creando occasioni di comunicazione, di gioco, di passione comune, di empatia non banale né escludente (Yamagishi & Mifune, 2009). Cioè di fare convivialità nel fare servizio, più precisamente di realizzare “interdipendenze connettive” (Neal, et al., 2019). Non è mai stato semplice, perché regole e incentivi, stili di relazione e modalità di comunicazione cambiano molto quando si agisce per fare qualcosa (azione strumentale, possibilmente riproducibile, completa e standardizzabile) e quando si agisce con qualcuno (azione affettiva, possibilmente individualizzabile, incompleta e speciale). Invece, con la pandemia abbiamo visto gruppi stremati dalla difficoltà crescente di articolare le due cose. Anche perché a partire dal lockdown la prossimità fisica è stata sempre meno una leva azionabile per ricomporre la tensione fra queste due forme di agire (cfr. invece precedentemente Bosi & Zamponi, 2015). Abbiamo così visto organizzazioni e persone rivolgersi verso forme di aiuto senza incontro, tutte giocate nell’efficacia, nella razionalizzazione dell’azione e dell’organizzazione, sottrandosi alla socialità. E abbiamo visto gruppi e persone stremate dall’azione “strumentale” (nel senso sociologico), muoversi verso l’organizzazione di momenti di ascolto, di condivisione di un caffè, di costruzione di legami e occasioni di incontro. Per ristabilire dei momenti non solo di parità, ma anche di condivisione emotiva, sfidando solitudini e distanze che da fisiche diventano propriamente sociali.
Entrambe le strade sono ovviamente degne di grande rispetto. E non dispongo di una massa di dati tali da poter dire se questa divaricazione sia congiunturale, e limitata, o al contrario diffusa e a rischio di stabilizzarsi. Assumo però che leggendo, parlando, intervistando persone impegnate nei gruppi di volontariato, questa divaricazione si esaspera e diventa importante per definire sé e i propri obiettivi nel mondo del volontariato. Mi sembra che sia la socialità, lo stare con gli altri, che faccia problema. Fa così problema da essere sia messa da parte per rendere più efficace il proprio lavoro nell’urgenza, oppure da essere assunta come difficile, e quindi considerata come obiettivo assoluto, a cui dedicare sforzi e intelligenza separandola da altri obiettivi.
La socialità è certamente un punto di difficoltà dei nostri tempi, nel prevalere di cerchie di interazione sempre più ristrette, sempre più mediate da dispositivi elettronici, senza né una narrazione né un richiamo simbolico e istituzionale per affermarne il valore (Sznaider, 1998) . Questo appunto da tempo. Nelle grandi città si coltivano al contempo l’indifferenza civile con gli abitanti, il radicamento nelle reti sociali del proprio quartiere, e un senso di responsabilità per la qualità dell’inclusione e dei servizi essenziali della città (Andreotti, et al., 2015). Ma la pandemia ci fa dubitare delle possibilità di incontro leggero con persone poco vicine, ci preoccupa, e in generale ci fa dubitare del valore di una socialità ordinaria e aperta. Ci rivolgiamo alla tecnologia per ricevere qualche forma di riconoscimento, e dei segnali di attenzione. Più che mai parliamo a noi stessi, a volte perdendoci nel nostro foro interiore, senza socialità a compensare i limiti psichici dell’individualismo riflessivo.
La solitudine, una sfida seria per il futuro
Se la trasmissione e la socialità sono due tensioni oggi visibili nei mondi del volontariato, cosa queste tensioni ci dicono delle sfide per il futuro? Non sarei soddisfatto di limitarmi ad auspicare con formulette di buon auspicio il bisogno di più trasmissione e più socialità, nella direzione di un agire più comunicativo. Questo lo sappiamo da sempre (Melucci, 1982). E su questo l’azione vitale del volontariato ha creato con straordinaria fantasia e creatività sempre nuove forme di azione collettiva. Io preferisco chiudere questa riflessione sulle tensioni di oggi e le sfide per il futuro del volontariato insistendo semmai sulla solitudine di cui entrambe le tensioni ci parlano. Una solitudine che il volontariato ha visto più e prima di altri. Molto spesso prima degli stessi servizi sociali (Morelli, et al., 2020). Una solitudine a cui non basta l’azione collettiva di gruppo. A cui non bastano luoghi, piattaforme e spazi di incontro. Una solitudine che non ha un carattere esistenziale, depressivo o psicologico. Questa solitudine non ha più ormai il significato che questo concetto ha assunto negli studi sull’azione volontaria e il capitale sociale, a partire dal celebre studio di Robert Putnam (2000). Le tensioni che attraversano il volontariato ci parlano di una certa solitudine nonostante gli amici, i familiari, l’aiuto generoso di vicini e volontari. Una solitudine che non è sinonimo di vulnerabilità e bassa protezione sociale. Una solitudine che è data dal difficile fare i conti con un cambiamento repentino di abitudini, opportunità e stili di vita. Una solitudine che emerge dalla difficoltà di fare ricorso ai saperi dell’esperienza in una fase inedita per tutte e tutti. Quello che alcuni chiamano spaesamento, accentuando gli elementi cognitivi, emerge nel racconto di cittadini che aiutano e sono aiutati come una solitudine nello stare di fronte ai cambiamenti spaesati non riescono a stare con gli altri di fronte all’incertezza, a usare le loro relazioni conviviali per fronteggiare lo spaesamento per il futuro. Non hanno coordinate per leggere i cambiamenti, e non trovano sostegno nelle cerchie di relazioni che hanno. Si sentono soli di fronte al futuro. È una solitudine in cui la propria cerchia ristretta non basta più (Sorgi & Bertè, 2020). La solitudine di cui stiamo parlando ci viene segnalata sia da chi prova a impegnarsi e non trova accoglienza, sia da chiede aiuto e non trova socialità efficace per condividere l’incertezza sul futuro è una solitudine in cui le spinte a diminuire la propria cerchia di amicizie sono stringenti in termini di spazio e di prossimità pericolosa all’aumentare dei contatti. Tuttavia, più che con una dimensione spaziale e con quella “quantitativamente” relazionale (quanti amici hai), si tratta di un tipo di solitudine che ha più a che fare con la dimensione temporale: “Mi sento solo perché temo interruzioni nelle relazioni che ho”.
Vedo in questo una domanda inedita al volontariato, non solo di azione e relazione, ma anche di espliciti percorsi “evolutivi” che dureranno. Si tratta quindi di una solitudine non disperata, non depressiva, e che interroga non tanto i legami fra le persone, ma i legami fra le persone, il loro passato e un futuro difficile da anticipare e indirizzare. Le tensioni che attraversano i gruppi di volontariato ci parlano della necessità di riaprire ed esporre al futuro azioni, concretezze, servizi, luoghi, diseguaglianze di accesso, piattaforme solidali e stili di relazione (Morelli, 2019). Esporre al futuro accettando di parlarsi del futuro. Anche per costruire coalizioni capaci di sostenere politiche pubbliche che dicano di un futuro comune (Vitale, 2018), ma non solo: di metterci tempo e cuore per non evadere le preoccupazioni che il futuro suscita. Se per tanto tempo i gruppi di volontariato si sono esercitati nell’arte di parlare di sé e delle propria azione, dentro un paradigma tecnico finalizzato ad ascoltare-raccontare-valorizzare la propria esperienza come esperimento da valorizzare e diffondere per migliorare la società, oggi questo registro stride con il modo con cui la solitudine delle persone ci chiede di affrontare il futuro (Rosina, 2018). Ne consegue, mi sembra, e se non mi sbaglio, un nodo di non secondaria importanza, e in buona misura inedito. Il rapporto fra l’azione volontaria e il futuro auspicato non si può’ più limitare alla auto-presentazione di sé, e delle migliori condizioni di politica pubblica per essere sostenuti e finanziati. Oggi “esserci” per sé e gli altri assume più un significato nell’orizzonte temporale che in quello spaziale. Esserci nel senso di rimanere in relazione, non nel senso di essere qui. Quali che siano le esigenze di cambiare e modificarsi a fronte di scenari incerti e imprevedibili, all’azione volontaria è richiesto di proiettarsi nel futuro e non interrompersi. Di proiettarsi nel futuro e proiettare altri in un futuro in cui non saranno tanto soli come si sentono ora nel tessere le connessioni fra la loro storia passata e il futuro che non riescono ad immaginarsi.
NOTE
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Vdossier
articolo tratto da
“Analisi-Vitale. Nella socialità ristretta dal virus trasmettere competenze e valori è un’arte che richiede creatività”
Vdossier numero 2 2020
Analisi e riflessione. Discussione e dibattito su idee, proposte, giudizi, opinioni e commenti. Questa è la missione di Vdossier.