Immigrati, fake news e mass media: i materiali del seminario del 6 giugno
«Nella storia della nostra specie deumanizzare serve a pensare l’altro essere umano incompleto, animale, oggetto. Serve a compiere su di lui azioni inaccettabili in un contesto normale». (Chiara Volpato)
L’emergenza profughi, il susseguirsi di sbarchi, la proposta di legge sullo Ius soli, l’introduzione del codice etico per le Ong, la questione della radicalizzazione e del terrorismo, sono stati alcuni degli argomenti principali della narrazione mediatica. Una narrazione spesso contaminata da discorsi d’odio, fake news, amplificati dall’uso poco responsabile dei social media. Tutti fenomeni che favoriscono l’emergere di una percezione distorta dell’argomento. Ma siamo tutti degli haters? Siamo consapevoli dell’uso che facciamo delle parole? Siamo sicuri di comunicare senza discriminare?
Sono alcuni dei temi sollevati durante l’incontro “Immigrati, fake news e mass media. (S)punti di vista sulla corretta informazione” che si è tenuto mercoledì 6 giugno alla Casa della Psicologia di Milano e organizzato da Ciessevi all’interno del progetto Voci di Confine promosso da Amref Health Africa e finanziato da Aics (Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo).
«Il racconto mediatico – ha spiegato Paola Magni di Amref Health Africa – è spesso frutto di una mancanza di competenza e di una conoscenza del fenomeno migratorio complessiva. In Italia, purtroppo, c’è una percezione distorta perché propaganda, facili slogan e dati falsati generano un impatto negativo. Questo succede perché la natura del messaggio che viene comunicato ha un impatto sulle attitudini delle persone. E queste attitudini diventano un comportamento».
Per scoprire le radici che stanno alla base di questa avversione Marinella Belluati, sociologa dei media e presidentessa del corso di laurea in comunicazione pubblica e politica dell’Università di Torino, parte dall’assunto che ogni crisi economica scatena delle disuguaglianze sociali che alimentano poi il rancore e la ricerca di un capro espiatorio a cui dare la colpa della situazione. Questo rancore è «cavalcato da alcune élite politiche che lo legittimano a livello istituzionale» spiega la docente. «Il discorso discriminatorio può facilmente permeare il senso comune. Quindi alimentare il risentimento è un’attività molto “remunerativa” in termini di consenso elettorale. Chi ricopre ruoli pubblici non sempre è consapevole del potere che i discorsi d’odio hanno nel creare animosità in una parte dell’opinione pubblica. La pervasività degli hate speech poi è oggi ampliata il larga misura dalla dinamica orizzontale del web e dei social media».
Ma che cos’è un discorso d’odio? «Per descriverlo – continua Belluati – il Consiglio d’Europa nel 1997 ha usato questa definizione: tutte le forme di espressione che diffondono, incitano, promuovono o giustificano l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo o altre forme di odio basate sull’intolleranza, inclusa l’intolleranza espressa da nazionalismo ed etnocentrismo aggressivi, la discriminazione e l’ostilità nei confronti delle minoranze, dei migranti e delle persone di origine straniera».
Torniamo quindi all’uso e al “peso” che hanno le parole perché l’insulto non colpisce solo le persone, ma qualifica negativamente le situazioni. «I termini odiosi – continua la sociologa – provocano dolore perché sono dispregiativi per natura. Sono le parole peggiori che si possano usare, soprattutto se si appartiene a un gruppo che esercita il potere su un altro che costituisce una minoranza, o che ha alle spalle una lunga storia di discriminazione».
I mezzi di comunicazione possono facilmente orientare la rappresentazione della realtà e influenzare in maniera considerevole il dibattito pubblico. «Discorso politico e discorso mediatico – spiega Belluati – si contaminano reciprocamente, rimbalzando pregiudizi e stigmi. Oggi la propagazione degli hate speech avviene in maniera rapida, grazie soprattutto ai social network che rendono possibile avere un rapporto più diretto e immediato tra i rappresentanti politico-istituzionali e i singoli cittadini, scavalcando l’intermediazione degli operatori dell’informazione. E il venir meno di forme mediate porta ad enfatizzare la propagazione di forme espressive meno controllate».
Rispetto invece agli strumenti di monitoraggio su mondo dei media Paola Barretta, ricercatrice dell’Osservatorio di Pavia e coordinatrice dell’Associazione Carta di Roma, ha scattato una fotografia su come i mezzi di comunicazione italiani hanno affrontato l’argomento:
«L’Ordine dei giornalisti – afferma – si è dotato, nel 2008, di una carta deontologica, la Carta di Roma, il cui principio cardine è quello di usare termini giuridicamente appropriati sul tema migranti, richiedenti asilo, rifugiati e vittime della tratta, al fine di restituire al lettore e all’utente la massima aderenza alla realtà dei fatti. Per promuoverne e monitorarne l’applicazione nel 2011 è stata fondata l’associazione Carta di Roma». Una regola fondamentale che il protocollo deontologico prevede: «è quello – continua Barretta – del rispetto del principio di verità sostanziale. Evitare quindi la diffusione di informazioni imprecise, sommarie e riflettere sempre sul danno che può essere arrecato da comportamenti superficiali e non corretti, che possano suscitare allarmi ingiustificati, anche attraverso improprie associazioni di notizie, alle persone oggetto di notizia e di riflesso alla credibilità dell’intera categoria dei giornalisti».
I dati raccolti dall’Osservatorio di Pavia mostrano come nel 2017 si è parlato con continuità del fenomeno migratorio e sono state solo 43 le giornate senza titoli sull’argomento. Si è inoltre registrato un incremento del 20% dei titoli allarmistici rispetto al 2016. Se guardiamo alle parole utilizzate nel periodo gennaio-febbraio 2018, in piena campagna elettorale, notiamo che la parola razza compare 155 volte, la parola paura 334 volte e la parola “negro”, parola assolutamente bandita in molti contesti internazionali, è presente nei quotidiani italiani per 57 volte, pari al totale del 2016.
Tornando invece alle domande iniziali sull’uso delle parole Stefano Trasatti, responsabile comunicazione di CSVnet, ha spiegato perché la manutenzione delle parole sia estremamente importante, soprattutto da parte di chi per mestiere si occupa di scrittura. «Il linguaggio è in continua trasformazione – ha affermato – cambia con la cultura, con l’evoluzione sociale, con quello che in un dato momento è considerato politicamente corretto. Le parole sono una convenzione frutto dell’evoluzione del linguaggio. Lessico che però non è mai preciso o definito una volta per tutte. Può accadere di trovarsi ad usare parole “vecchie” per definire cose nuove e ci accorgiamo che sono inadeguate, incomplete, insidiose e a volta risultano perfino offensive. Da questa riflessione è nata prima una pubblicazione e poi un sito web ParlareCivile.it, il cui motto è “Non esistono parole sbagliate. Esiste un uso sbagliato delle parole”. Il portale vuole fornire un aiuto a giornalisti e comunicatori per trattare con un linguaggio corretto temi sensibili e a rischio di discriminazione». Entrando nel vivo della questione Trasatti ha sottolineato come: «occorre leggere le parole per la carica di deumanizzazione che hanno. “Deumanizzazione. Come si legittima la violenza” è un libro di Chiara Volpato che consiglio di leggere e che contiene una sintesi di tutti gli studi su questo concetto. Ma come agisce la deumanizzazione? Lo fa con vari metodi: il primo è l’animalizzazione, cioè il trattare le persone come bestie e quindi contrapporre gli umani a qualcosa di non umano, a un’alterità. Poi subentra la demolizione di alcune qualità che definiscono gli esseri umani come l’identità e la comunità, fino ad arrivare al meccanismo più sottile di negare l’appartenenza ad una cultura e alla capacità di provare sentimenti. La deumanizzazione è quindi un atteggiamento che in maniera subdola cerca di sottrarre a un gruppo di persone la propria umanità, insinuando la mancanza dei requisiti di appartenenza alla specie umana».
Alcuni materiali di approfondimento
Hate speech e discorsi d’odio sui migranti nella discussione politica:
- le sildes di presentazione di Marinella Belluati
- We can. Taking Action against Hate Speech through Counter and Alternative Narratives (pubblicazione promossa dal Consiglio d’Europa)
- Hate speech. Facebook: su 100 commenti segnalati rimosso meno di un terzo
- da Internazionale: Le parole per ferire di Tullio de Mauro
- da La Stampa: Niente sesso, attenzione a violenza e razzismo: ecco la censura secondo Facebook
- L’odio non è un’opinione. Ricerca su hate speech, giornalismo e migrazioni
“Notizie da paura”: il racconto del fenomeno migratorio nel 2017”
Dalla Carta di Roma a Parlare civile: lo “straniero” e la manutenzione delle parole
- sito: parlarecivile.it
- “Deumanizzazione. Come si legittima la violenza” di Chiara Volpato, edizioni Laterza, 2011
David Troll: un cortometraggio sulle fake news
- Amref ha presentato alla Festa del Cinema di Roma del 2017 il cortometraggio “David Troll”, prodotto da 8 Production e diretto da Antonio Costa, sul tema delle fake news , le bufale che infestano il Web e da cui occorre sapersi proteggere, per non perdere contatto con la realtà. Guarda il trailer