Non solo “Like” né mordi e fuggi il volontariato secondo Bobba è responsabilità e continuità
Come cambia la solidarietà. Per il sottosegretario al Lavoro e Politiche sociali e “padre” della Riforma nessuna paura dei social, ma serve mettere in gioco la persona
di Chiara Castri
«La partecipazione non è un mero fatto estetico: è quel dovere inderogabile di solidarietà cui è tenuto un cittadino come soggetto attivo, partecipe di una comunità». È questa la definizione che dà della partecipazione il sottosegretario al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali Luigi Bobba. Una partecipazione riconosciuta, ma anche incoraggiata; un diritto-dovere, il «risultato finale di una cultura che guarda alla persona più che all’individuo; una cultura che guarda alla comunità». Ma cos’è oggi la partecipazione? «Non è un caso, a tal proposito – sottolinea Bobba – che nella Riforma vengano dati una lettura ed un riconoscimento del volontario non solo dentro l’associazione di volontariato, ma trasversalmente, in tutte le forme associative e di impresa sociale presenti nel Paese». Non più solo una partecipazione ed un impegno volontario strutturati, legati ad un’adesione personale ad un progetto e all’appartenenza a organizzazioni portatrici di propri caratteri identitari, ma volontari, persone che possono scegliere di declinare le loro scelte di partecipazione in modo spontaneo e plurimo, fluido, individuale. Mutamenti sociali e nel modo di attivazione si intrecciano con un ruolo dei social in continua evoluzione e con una riforma legislativa complessiva: quali nuovi significati assume allora il concetto di partecipazione? E come muta con essa l’identità (o le identità) del volontariato? Ne abbiamo discusso con il sottosegretario Bobba, al quale abbiamo chiesto una valutazione sul processo partecipativo nella Riforma e una previsione: come sarà la partecipazione del futuro?
La partecipazione è uno dei temi al centro della riforma del Terzo settore. È dalla nuova accezione di quella che si conferma come una parola chiave che vorremmo partire: come cambia e come cambierà la partecipazione alla luce delle novità che la stessa Riforma introduce?
La Riforma affonda le sue radici in alcuni articoli fondamentali della nostra Carta costituzionale, in particolare l’articolo 2, il 3, il 4, il 118. Proprio il richiamo agli articoli medesimi porta ad individuare con immediata chiarezza l’obiettivo, il cuore della Riforma. Anzitutto il riconoscimento degli enti di Terzo settore come parte di quelle formazioni sociali dove si svolge la personalità dei singoli; dove, cioè, si costruisce anche la partecipazione alla vita sociale, culturale, lavorativa, educativa del Paese. In primo luogo un riconoscimento, quindi, orientato verso un altro obiettivo: rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono una piena uguaglianza dei cittadini in termini di diritti e accesso alle opportunità, con un richiamo agli inderogabili doveri di solidarietà. La partecipazione non è quindi un mero fatto estetico: è quel dovere inderogabile di solidarietà cui è tenuto un cittadino come soggetto attivo, partecipe di una comunità. Infine il dovere – programmatico per le istituzioni – di favorire l’articolo 118, creare cioè le condizioni perché l’esercizio dei doveri di solidarietà – in vista della rimozione di tutti gli ostacoli all’uguaglianza – possa essere il più possibile sostenuto, favorito, facilitato nel contesto in cui vivono le persone. Credo che, analizzata in questa ottica, la partecipazione diventi il risultato finale di una cultura che guarda alla persona più che all’individuo; che guarda alla comunità; che deve consentire l’accesso ai diritti e alle tutele a tutti e, allo stesso tempo, chiede a chi viene riconosciuto nei suoi diritti di esercitare anche i propri doveri di solidarietà.
Storicamente la partecipazione alla vita politica, sindacale, sociale e l’impegno nel volontariato erano spesso la conseguenza di un’adesione personale ad un progetto, ad un’idea. Questo tipo di partecipazione e di volontariato esiste ancora? Qual è oggi – anche alla luce della Riforma – la forbice tra quell’impegno volontario continuo, strutturato, di adesione personale e quello fluido o legato ai grandi eventi come Expo?
Secondo i dati Istat i volontari organizzati in reti associative sono 4 milioni 700mila, mentre quelli che preferiscono un impegno più individuale – come tale meno legato in modo duraturo ad una rete associativa – sono circa un milione 700mila. Potenzialità, che credo vadano considerate positivamente. Due sono, a mio parere, gli elementi da sottolineare. Il primo: occorre investire sulle reti associative che promuovono un impegno civico e volontario. Anche una capacità di durata di tale impegno oltre la mera occasionalità è, infatti, un elemento di qualità importante, maggiormente realizzabile laddove la persona sia collegata ad una realtà che abbia la capacità di indirizzare la sua disponibilità, il suo impegno volontario verso forme anche diverse. Non è un caso, a tal proposito, che nella Riforma vengano dati una lettura ed un riconoscimento del volontario non solo dentro l’associazione di volontariato, ma trasversalmente, in tutte le forme associative e di impresa sociale presenti nel Paese. Il secondo aspetto da tener presente è la necessità di investire in modo particolare sul tema della formazione e della qualificazione dell’azione volontaria. Non c’è nulla di scontato nel pensare che ciò che si faceva un tempo, che l’esperienza delle generazioni adulte e anziane si trasmigri automaticamente e naturalmente verso le generazioni più giovani. Solo processi intenzionali e finalizzati possono dare un risultato reale, soprattutto a fronte dei contesti attuali di vita, impregnati di una cultura più individualista, di legami sociali che rischiano di essere frammentati, liquidi per dirla con il sociologo Zygmunt Bauman. In questo senso, nella riforma del Terzo settore, l’investimento sul servizio civile volontario per i giovani è un investimento che pone ricadute importanti proprio sulle reti sociali organizzate che sappiano interloquire, motivare, ingaggiare persone disponibili ad un impegno volontario, ad esercitare quei doveri inderogabili di solidarietà sociale sanciti dalla nostra Carta costituzionale e ribaditi dalla Riforma stessa.
Introduciamo in questa riflessione il punto di vista di una organizzazione di volontariato: quali sono le conseguenze? Come ripensare alcuni aspetti del suo essere associazione a partire da quello identitario, ma anche in termini di capitale umano, formazione, capacità di coinvolgimento di nuovi volontari?
Evidentemente la dimensione identitaria, la missione, la forma associativa che ciascuno sceglie per la realtà associativa a cui partecipa sono essenziali, sono il cuore della motivazione, la base della disponibilità all’impegno volontario. Oltre questo elemento e a fianco della formazione, credo sia importante, come la stessa Riforma ribadisce, che le tante realtà diverse, plurali, con motivazioni, storie e modalità di intervento differenziate, non agiscano da sole, ma in rete. La Riforma riconosce, infatti, le reti e riforma i Centri di Servizio per il Volontariato proprio con questo intento: alcune funzioni di promozione, monitoraggio, controllo, sostegno alla formazione possono avvenire meglio se organizzate, sostenute dalle reti anziché pensare che ciascuno possa fare tutto da sé, in casa. È importante che ciascuno faccia per la missione che gli è propria, ma entro un contesto in cui non agisce come un’isola, ma si inserisce in una rete.
Come muterà, alla luce di questo quadro di mutamenti, l’identità (o le identità) del volontario? Di fronte al nuovo orizzonte di una partecipazione fluida, spontanea, non più esclusiva, che ne sarà del senso di appartenenza?
Anzitutto credo che le reti associative non debbano guardare con sospetto a questo volontariato “leggero”, quanto coglierne piuttosto le potenzialità, trasformarle in una motivazione che sostenga qualcosa di più duraturo. Guardarlo, quindi, con simpatia, pur non assecondando semplicemente una tendenza che, in qualche modo, precarizza tutti gli elementi di vita della persona. Si tratta di una disponibilità che va comunque colta come una risorsa e non come una degenerazione, come in alcune occasioni è stata definita. Una risorsa che va coltivata, curata, sulla quale va fatto un investimento. È questa a mio parere la novità del tempo che ci troviamo a vivere.
Più da vicino sulla Riforma: come è stato il processo partecipativo? Quale il contributo dal basso? Qual è la sua valutazione?
La mia è certamente una valutazione positiva. Basti pensare alle oltre 1.400 risposte alle Linee guida lanciate nel maggio 2014: una novità importante, in risposta alla quale in molti si erano mobilitati per offrire suggerimenti, idee, osservazioni. E ancora, durante tutto il tempo della Riforma – oltre agli strumenti istituzionali di consultazione che le Camere prevedono in ordinario su tutti i processi legislativi – c’è stato un lavoro da parte del Ministero di ascolto, presentazione, discussione estremamente ampio. Così come i contributi più strutturati, continuativi e partecipati, del Forum del Terzo settore, ma anche da parte di altre reti come CSVnet o Acri o il mondo organizzato della cooperazione sociale o le associazioni sportive. Ferma tutta la varietà di questo mondo, il dialogo non è mai stato impedito, anzi, piuttosto, favorito. In più, se si aggiunge il lavoro più politicamente strutturato da parte del Forum del Terzo settore, che ha attinto dalle sue reti, penso si tratti di una Riforma ad alto tasso di partecipazione.
Vorremmo chiudere con una sua previsione: alla luce della Riforma, degli attuali mutamenti sociali e di impegno, alla luce del ruolo dei social network, che aprono le porte ad una partecipazione potenzialmente planetaria, come vede il futuro della partecipazione?
Certamente i social sono uno strumento per allargare e costruire reti altrimenti impensabili. Non possiamo però pensare che con un “mi piace” costruiamo un’azione di tipo volontario, né tantomeno un processo partecipativo. La rete può essere un sostegno. Ma a cosa? Ad avere un numero di persone che decidono volontariamente di operare per una buona causa, di creare un’impresa sociale, di fare azione volontaria in modo non occasionale, di promuovere iniziative per includere i molti che sono esclusi. Azioni queste che, tuttavia, poi richiedono energia, tempo, dedizione, ma anche formazione e competenze. Utilizziamo quindi i social come strumento per rafforzare processi partecipativi, ma l’azione volontaria è quella che poi richiede una messa in gioco personale, senza la quale tutto manterrebbe un carattere di ultra leggerezza che non mobilita i sentimenti profondi di una persona che sono la base di azioni compiute per una scelta consapevole, non per fini di lucro o per obbligo di legge. È lì che bisogna saper utilizzare al meglio le reti ed i social, avendo come orizzonte un allargamento della base delle persone che si dedicano all’impegno civico e volontario. Basti pensare al campo della finanza etica: è chiaro che le scelte individuali di centinaia di migliaia o di milioni di risparmiatori sono in grado di modificare o di produrre, oggi, processi importanti, capaci anche di modificare le condizioni attraverso cui l’utilizzo del risparmio viene orientato ad un fine. È allora chiaro che anche tanti comportamenti individuali – entro un orizzonte tenuto insieme da organizzazioni di rete – sono in grado oggi di produrre una soglia critica che agisce da cambiamento anche su altri attori sociali, economici, istituzionali. Nessuna paura, quindi, dei social, che modificano molto anche le forme della comunicazione e della capacità di agire insieme a distanza. Sapendo però che poi, comunque, servono scelte e comportamenti che abbiano a che fare con la propria responsabilità personale.
(Tratto da numero 3 di Vdossier anno 2017)