Nelle sue forme tradizionali la partecipazione è in crisi. Ma non possiamo farne a meno
Democrazia diretta e democrazia elettronica possono offrire strumenti utili. Ma per Valerio Onida abbiamo ancora bisogno di rappresentanze, luoghi di discussione e dei partiti
di Paola Springhetti
Milano,ottobre 2018 – La partecipazione oggi è in crisi, almeno in alcune sue forme, e questo è un problema per il funzionamento della democrazia. Ne abbiamo parlato con Valerio Onida, professore emerito di diritto costituzionale all’Università degli Studi di Milano ed ex presidente della Corte Costituzionale.
«Prima di tutto dovremmo chiederci di quale tipo di partecipazione parliamo», puntualizza. «Che sia in crisi la partecipazione politica è vero, ma altre forme, ad esempio quella che riguarda attività di interesse sociale, non lo sono. Quindi il problema non è quello della partecipazione in generale, cioè degli strumenti attraverso i quali sempre più persone partecipano ad attività o iniziative di interesse comune, ma è quello della partecipazione politica, perché diminuisce il numero di coloro che ci credono e la qualità delle forme nelle quali si attua».
A quali forme si riferisce?
Per esempio, attraverso la rete tanti esprimono idee e opinioni anche di interesse politico, ma con modalità, per così dire, deteriori: insulti, polemiche, affermazioni apodittiche. Internet è uno strumento di partecipazione, anche importante, ma esprime spesso contenuti che sembrano appartenere piuttosto a una tifoseria che non ad un corpo di cittadini elettori. È un po’, per fare un paragone azzardato, come se in una elezione tradizionale, la maggioranza dei votanti annullasse la scheda con scritte più o meno volgari.
La caduta di fiducia nelle istituzioni ha a che fare con la crisi della partecipazione politica?
La diminuita fiducia nelle Istituzioni si traduce in una assenza o in una minore volontà di partecipazione politica seria. Si traduce anche in sfiducia nella legge, e questo è un antico vizio: la legge è spesso concepita come uno strumento usato dai potenti per favorire determinati interessi, e dunque, come talvolta si dice, “si applica ai nemici e si interpreta per gli amici”. Si traduce in sfiducia nella Pubblica Amministrazione, negli apparati pubblici: il cittadino pensa che coloro che hanno responsabilità siano intenti solo ai propri interessi, e non a quelli della collettività. Si traduce pure, più di recente, in sfiducia nei giudici, magari anche per effetto dell’eco di alcune decisioni o della percezione della difficoltà di avere decisioni tempestive.
Partecipare dovrebbe voler dire anche esercitare un potere, e quindi ridimensionare coloro che esercitano il loro potere in un modo che non condividiamo.
È pericoloso vedere la partecipazione come partecipazione al “potere”. La vera partecipazione politica è esercitare non tanto un potere, quanto una funzione, che vuol dire fare il bene della collettività, curarne gli interessi. Il potere è uno strumento – nel senso che, per realizzare certi obiettivi, ho bisogno del potere – ma non è l’oggetto della politica, né la sua essenza. Semmai, da quando esistono le Costituzioni, il tema è quello di limitare il potere, perché non si trasformi in arbitrio.
I partiti sono in crisi. Sono sostituibili, come luoghi di partecipazione?
Erano organismi collettivi, caratterizzati dal condividere idee e valori di fondo circa la società, dall’elaborare e portare avanti programmi conformi a quei valori, e dall’orientare, attraverso l’elaborazione e la partecipazione costante, le scelte istituzionali. Certamente oggi i partiti sembrano in crisi, anzi sembrano quasi scomparsi, perché le ideologie non hanno più presa non è chiaro quali sono i valori di fondo dei diversi gruppi che si confrontano, e i programmi sono spesso visti come specchietti per le allodole. Tentativi di attirare il consenso attraverso promesse irrealizzabili o solleticando gli interessi immediati ed egoistici dei singoli gruppi, invece che come progetti concreti e realistici in funzione del bene della collettività. E quindi i partiti hanno perso anche la capacità di orientare le scelte istituzionali.
Altro problema è quello del leaderismo: la fiducia nei partiti è stata sostituita dalla fiducia nel leader. È la personalizzazione del potere. Non credo però che esista alternativa al costruire o ricostruire organismi collettivi, che abbiano quelle caratteristiche che i partiti oggi sembrano non avere più: la capacità di individuare e diffondere valori (anche con un’azione di educazione politica), elaborare programmi coerenti con questi valori e orientare le scelte istituzionali in maniera conforme a questi programmi.
Potremmo dire anche che i partiti ancora oggi sono strettamente nazionali, mentre noi siamo in Europa e i temi politici più importanti riguardano l’Europa e il mondo: anche i partiti, dunque, dovrebbero essere “transfrontalieri”, per così dire. A primavera eleggeremo il Parlamento Europeo, che dal ’79 si elegge direttamente: è la massima espressione di democrazia parlamentare a livello europeo. Ma gli elettori italiani – e credo anche quelli degli altri Paesi – sono chiamati a scegliere liste e ad eleggere persone guardando quasi esclusivamente a programmi e interessi di tipo nazionale. Servirebbe una classe politica europea, che abbia valori comuni ed elabori programmi comuni. È difficile, anche perché ci sono barriere linguistiche e difficoltà culturali, ma credo che questa sia una delle strade da battere.
È la democrazia parlamentare ad essere in crisi?
La democrazia è un sistema nel quale “la sovranità appartiene al popolo”, e quindi tutti i cittadini sono chiamati a dare il loro contributo e a orientare le scelte politiche attraverso i partiti e gli altri strumenti della partecipazione. Questa democrazia oggi appare in crisi sotto molti profili, perché i cittadini hanno l’impressione che i meccanismi che governano la politica siano spesso sganciati dagli interessi e comunque dal bene della comunità, vista come tale, oggettivamente, e non solo come somma di interessi particolari.
La democrazia è questo: una comunità che si autogoverna, che ha dei valori comuni, che si confronta sulle scelte più opportune e che si dà gli strumenti per orientare le istituzioni.
La democrazia rappresentativa passa attraverso i meccanismi delle elezioni. A volte questi strumenti sembrano non funzionare: in Parlamento non c’è vero confronto, sembra di assistere ad opposti comizi; spesso le scelte passano attraverso meccanismi non trasparenti. Però la soluzione non è il passaggio tout court alla democrazia diretta. I meccanismi di tipo referendario e affini sono strumenti preziosi, tant’è vero che la nostra costituzione ha aperto spazi alla democrazia diretta, come correttivo e integrazione della democrazia rappresentativa. Che però la possa sostituire, mi sembra impossibile.
La cosiddetta “democrazia elettronica” può essere una risposta che apre a nuove forme di partecipazione?
Certamente sì, nel senso che offre nuovi strumenti anche per partecipare alle decisioni. Ma le forme di democrazia diretta che conosciamo, attraverso strumenti tradizionali come le schede di un referendum, o l’uso della rete, consentono per lo più di rispondere con un sì od un no a quesiti precisi, ma non sostituiscono la discussione, il dibattito, il confronto organizzato prima delle scelte su temi complessi. Soprattutto c’è il problema di chi formula le domande, e che nel far ciò esercita un potere enorme. Anche un plebiscito è una risposta corale ad una domanda unica, posta da un soggetto, ma esprime adesione “fideistica” a tale soggetto. Il referendum è qualche cosa di diverso e di più: serve a dare risposte articolate su singoli quesiti specifici, e può funzionare solo se vi sia stata prima vera discussione pubblica. Votare con il tablet invece che con schede di carta può essere utile, ma comunque le forme che conosciamo di democrazia diretta non possono sostituire la democrazia rappresentativa, soprattutto in grandi comunità. La democrazia elettronica può fornire strumenti integrativi, che si possono e si debbono valorizzare, ma non può essere sostituzione della democrazia rappresentativa.
C’è un modo di concepire la partecipazione (che è emerso particolarmente sul web e in particolare attraverso i social network) in base al quale il parere di tutti ha lo stesso valore. Sembra quasi che se si premiano le competenze si rompe il principio di uguaglianza. In che rapporto stanno competenza e partecipazione?
Le competenze servono per individuare i problemi, analizzarli, individuare le possibili risposte. Servono per conoscere le complesse realtà sulle quali la politica interviene. Questo non vuole dire affidare le decisioni solo ai competenti, anche se in qualche misura chi ha responsabilità politiche dovrebbe essere preparato almeno quanto basta per distinguere i casi in cui occorrono risposte che richiedono di avvalersi di specifiche competenze. Del resto, chi sono i “competenti” e chi li sceglie? Chi ha detto che coloro che sono competenti in un campo sappiano fare le scelte più idonee, tenendo conto anche di tutte le altre ripercussioni che una scelta può avere? La competenza serve, ma non può essere sostituita alla partecipazione politica.
Quella della partecipazione è anche una crisi culturale, o di valori (nel senso che non si riconosce più l’importanza di concetti come il bene comune, la responsabilità, il dialogo…)?
La politica non è soltanto dividersi, schierarsi contro; e l’espressione della maggioranza non esaurisce il meccanismo della democrazia. Per fare scelte che siano per la collettività ci deve essere una base comune. Ci deve essere la capacità di confrontarsi, di mediare, di fare scelte di bilanciamento tra interessi contrapposti. È questa la grande capacità politica: di avere opinioni differenti da altri, ma mantenendo la capacità di concorrere al bene comune.
I partiti sono “parti totali”: parti nel senso che rappresentano delle idee e ci sono persone e gruppi che le condividono e altri che non le condividono; ma totali nel senso che ragionano o dovrebbero ragionare in funzione dell’intera collettività, non di interessi particolari.
Il volontariato non sembra in crisi, se si guardano i numeri. Perché gode ancora di una certa popolarità?
Forse perché le persone hanno la sensazione di riuscire a fare e dare qualche cosa vedendo il risultato, a differenza di altre forme di partecipazione. È vero che esiste anche il volontariato individuale, ma per sua natura il volontariato chiede che ci si organizzi, che attorno ad un’organizzazione o ad una causa si raccolgano le persone che hanno la stessa volontà di operare, rendendo collettivo l’impegno. Oggi bisognerebbe che la mentalità del volontariato, basata sulla gratuità e sull’impegno, che si esercita nell’ambito di micro settori, si allargasse anche a livelli più ampi, sociali e politici.