Relazioni pericolose. Mi impegno ergo sum. La molla della gratuità? Il piacere di aiutare gli altri
«Alla sorgente della solidarietà – spiega Tommaso Vitale – c’è l’idea di poter influire positivamente sulla vita delle persone che sono in difficoltà»
di Elisabetta Bianchetti
Milano, maggio 2010 – I conflitti urbani sono sempre stati il cavallo di battaglia delle sue ricerche, al punto che è arrivato a studiare le politiche possibili per un abitare gomito a gomito con rom e sinti. Ma nel mirino dei suoi molteplici interessi di sociologo Tommaso Vitale, docente all’Università degli Studi-Bicocca, non manca di considerare il volontariato, a maggior ragione in questo periodo in cui una crisi galoppante non investe soltanto l’economia ma anche le relazioni sociali. Di certo la recessione è «più avvertita dalle persone dei ceti più popolari rispetto a chi appartiene al ceto medio» spiega. Per ceti popolari intende gli operai, oppure coloro che rientrano nella sfera del settore impiegatizio dequalificato, cioè con un basso livello d’istruzione. «E occorre precisare che la stretta economica di questi mesi – chiarisce Vitale – è molto più percepita di quanto non si riscontra sulle pagine dei giornali, nei Tg, nei talk show televisivi e nei notiziari radio, oppure da quanto espresso nei dibattiti della classe politica locale e nazionale». Per inquadrare il perimetro del problema, Vitale volge anzitutto uno sguardo al passato. «Quello che le ricerche sociologiche fotografano e che dicono sul volontariato è che vi partecipano di più le persone che hanno una vita per così dire più complicata. Per esempio, per fare un confronto aderiscono maggiormente alle attività di volontariato le donne che hanno un lavoro rispetto alle casalinghe; partecipano di più le persone che hanno figli da accudire rispetto a quelle che non li hanno. E che dire poi dell’esercito dei neopensionati. È fuor di dubbio che essi costituiscono una straordinaria risorsa, e che partecipano di più alle attività quella schiera di pensionati che hanno avuto una vita occupazionale e professionale più intensa, più piena, più appagante». Di fronte a questi scenari, il ricercatore della Bicocca evidenzia che i meccanismi della “partecipazione volontaria” si fondano su un modello che gli studiosi sono soliti chiamare di “centralità”. Analizzando «la vita sociale emerge che più una persona pone al centro della sua esistenza l’idea di avere un potere d’influenza sulla propria vita, sulla vita altrui e anche sulla vita dei propri territori e sulla vita delle persone più in difficoltà, maggiormente si attiva, si mobilita e si impegna».
Non solo sentimenti nella vocazione all’altruismo
Facendo leva su questa tesi la riflessione si coniuga con «la domanda sulla propensione alla solidarietà». Un tema che affrontato dal punto di vista della sociologia, e non in una prospettiva ideologica, morale o filosofica, fa emergere che la vocazione all’altruismo e alla gratuità non è legata semplicemente a valori emozionali oppure a un sentimentalismo, ma è annodata «a elementi profondi tali per cui le persone pensano di poter avere un’opportunità di influenza sulla vita di qualcuno». Ma ciò, per Vitale, costituisce una deriva pericolosa. Da qui si rischia di scivolare su due questioni preoccupanti. Primo: «Ogni genere di indagine che abbiamo a disposizione in Italia e all’estero prova che non è mai stato vero che le persone si mobilitano di più quando si sta peggio, ma si mobilitano di più quando pensano che il loro ruolo sia più efficace, cioè quando ipotizzano che mobilitandosi siano maggiori le opportunità di ottenere dei risultati positivi». Secondo: «Non è il peggioramento di una condizione oggettiva che mobilita di più, ma è l’aprirsi di opportunità percepite dalle persone». Come dire: la miccia che innesca l’impegno nel volontariato è una condizione culturale, soggettiva, in cui si legge un’opportunità di poter fare qualcosa. «Non è il fatto di stare peggio in sé, ma è la lettura culturale della condizione che favorisce o meno la mobilitazione delle persone».
Se questo è vero, allora nella fase attuale un ruolo fondamentale lo giocano le organizzazioni di volontariato e, in particolare, quelle cosiddette “a ombrello”, cioè “quelle stratificate su più livelli”. Tocca a esse favorire e premere per «una lettura del contesto in termini di opportunità aperta». E se non viene messa in moto questa manovra, che «è un’operazione d’investimento culturale, di ridefinizione del modo con cui il cittadino ordinario guarda e attribuisce senso e significato al proprio agire potenziale, sarà poi molto difficile mantenere degli alti livelli di mobilitazione dei volontari, che in Italia sono già più bassi rispetto ad altri Paesi europei». Per il sociologo Vitale, un segnale positivo alla crisi lo ha dato il Cardinale di Milano, Dionigi Tettamanzi, che ha istituto il Fondo “Famiglia e lavoro”, ma quello che manca «sono iniziative di effetto sull’opinione pubblica, che ridiano una lettura in termini di opportunità aperte ed efficaci all’azione volontaria, che impegnino figure che siano più centrali nella società: persone che hanno uno stato lavorativo più consolidato, che hanno certezze, che hanno un livello d’istruzione medio superiore».
Per quanto riguarda, invece, la gestione del tempo libero, non si hanno dati recenti, ma sulla base delle ultime ricerche a disposizione risulta che la società italiana e lombarda è contrassegnata da grandissime disuguaglianze. Lo conferma il fatto che anche nel Milanese «c’è un’emergenza per le donne tra i 25 e i 44 anni causata dal grosso sovraccarico di lavoro e dei compiti di cura dei figli e dei genitori anziani». Queste donne fanno una fatica immensa a conciliare professione e famiglia, in quanto «lavorano più lontano rispetto a dove vivono, hanno tutti i carichi di cura e assistenza dei figli ma soprattutto dei genitori anziani che, tendenzialmente, le aiutano meno rispetto a quanto avveniva anche solo dieci anni fa, perché quegli stessi genitori sono invecchiati e hanno maggiore bisogno di aiuto. Questa tipologia di donne ha carriere professionali più atipiche e una richiesta d’impegno sul loro lavoro estremamente più intensa che in passato». Tale carico enorme di impegni su molteplici fronti erode tutto il tempo a disposizione delle donne in una fascia di età tra i 25 ai 44 anni, al punto che esse non hanno più spazio per azioni di solidarietà.
La leva del mutualismo come ricetta anticrisi
Ma come la crisi economica ha mutato la “chiamata al volontariato”? «Cosa sia successo in questo periodo non lo sappiamo. Possiamo però delineare due traiettorie di tendenza. La prima, è un germe positivo verso il mondo del mutualismo che si sta sviluppando e che è molto differente rispetto alla stagione altruistica degli anni Ottanta e Novanta. Quello odierno è un mutualismo, nelle forme, più vicino a quello di inizio Novecento ed è rilevante perché sposa due caratteristiche: una è la socialità, l’altra la messa in comune del proprio bisogno. Una messa in comune che muove da un interesse personale e diventa una leva di mutualismo, quindi di solidarietà aperta». Un esempio? «Riferendosi ancora alle donne fra i 25 e i 44 anni, esse si aiutano vicendevolmente per trovare delle soluzioni rispetto alle loro fatiche. Questa è una linea di tendenza importante che inizia ad avere alcune traduzioni economiche, dato che la gente comincia a mettersi insieme per acquistare beni e servizi, diminuendo così il costo dei consumi. E in questa prospettiva tale trend può rivelarsi positivo se la crisi dovesse protrarsi più a lungo».
«La seconda linea di tendenza – sottolinea ancora Vitale – è di progressiva dismissione delle attenzioni del volontariato nei confronti degli ultimi, delle persone più svantaggiate, dei poveri, dei bisognosi. Le attenzioni del volontariato si calamitano invece verso figure che sono considerate più meritevoli di aiuto, come malati, anziani o persone sole». Così come si assiste a una piccola riduzione dell’impegno altruistico nei confronti delle situazioni di disagio estremo. Si sta verificando, per esempio, una riduzione dell’impegno in carcere, nei confronti delle prostitute, dei malati di mente, degli alcolisti.
L’architrave della coesione sociale? La quotidianità
Il sociologo dell’Università di Milano, infine, prova a smontare un luogo comune. «Spesso si sente ripetere fra i dirigenti del Terzo Settore che “le questioni serie, sono quelle drammatiche e tragiche”. Così dicendo però si presuppone che le cose poco serie sarebbero la socialità ordinaria, come per esempio l’organizzare una gita per gli anziani del quartiere». Per Vitale non c’è niente di più sbagliato che questa equazione. «Questo tipo di letture emergenziali sono devastanti per la coesione sociale. Infatti i legami non si tengono uniti soltanto se c’è un’emergenza drammatica. La coesione sociale vive nell’ordinario, in un tessuto capace di promuovere e valorizzare il protagonismo dei cittadini nella vita di tutti i giorni. Solo così le persone non diventano semplicemente degli spettatori. Perché è un dato di fatto che lo spettacolo del dolore non ha mai mobilitato nessuno. Semmai ha suscitato, nel migliore dei casi, la presa di parola di persone estremamente “centrali”, come i politici, ma non ha mai mobilitato forme strutturate di solidarietà. Lo spettacolo del dolore in sé e per sé arriva al cuore della pietà, cioè al corpo emozionale. Mentre il passaggio all’azione è basato sulle dinamiche che abbiamo affrontato».