Riqualificare o escludere? Il doppio volto della rigenerazione urbana a Milano
La trasformazione degli spazi urbani a Milano, pur promuovendo il rinnovamento di quartieri e infrastrutture, solleva interrogativi sulla sua reale inclusività. Mentre le istituzioni puntano su progetti di riqualificazione e housing sociale, i movimenti locali mettono in guardia dai rischi di gentrificazione e disuguaglianze. La vera sfida è integrare le dimensioni fisiche, culturali e sociali dei territori, coinvolgendo attivamente la comunità per evitare che il cambiamento urbanistico favorisca solo alcune fasce della popolazione, escludendo i più vulnerabili.
di Elisabetta Bianchetti
Il concetto di rigenerazione urbana si è insinuata nel linguaggio quotidiano, ma il termine tanto diffuso è altrettanto sfuggente. Il suo significato ha varie definizioni, etichette che aderiscono a realtà disparate quanto ingannevoli. Rigenerare è un verbo che evoca rinascita o, nel contesto fisico, il benessere. Nella giungla urbana, rigenerare assume il compito titanico di rianimare il tessuto stesso della città, un organismo pulsante dove interessi economici, sociali e culturali si scontrano e negoziano, spesso con esiti imprevisti. Dalle arterie commerciali alle piazze che pulsano di vita quotidiana, la rigenerazione urbana assume un significato molteplice, eterogeneo, una commistione di azioni. Gli amministratori locali sventolano la bandiera della rigenerazione per descrivere progetti disparati: dalla ristrutturazione di un vecchio edificio, all’installazione di nuovi arredi in una piazza, fino ai murales che rivitalizzano i quartieri popolari. Talvolta, persino l’edificazione su terreni abbandonati è etichettata come tale. Dall’altra parte, gli investitori privati e gli stessi decisori pubblici parlano di trasformare caserme dismesse in residenze di pregio o vecchie stazioni in hotel di lusso.
Non meno attivi, comitati cittadini e movimenti culturali rivendicano questo termine quando reinventano gli spazi in cui operano, progettano forme di vita condivisa, ridanno vita e funzione a luoghi dimenticati, e cercano soluzioni a problemi come la precarietà abitativa o la mancanza di spazi per la socialità e la cultura. Rigenerare una città, quindi, non è solo una questione di costruzione, ma un dialogo continuo e spesso contestato su come dovrebbe evolversi lo spazio urbano.”
Nella città metropolitana di Milano, la rigenerazione urbana si traduce in interventi che spaziano dalla ristrutturazione di edifici dismessi alla riqualificazione di interi quartieri, fino a progetti di edilizia sociale e nuove aree verdi. Tuttavia, questa crescita non sempre ha garantito un equilibrio tra sviluppo economico e inclusione sociale, generando talvolta fenomeni di gentrificazione e aumento delle disuguaglianze. “La rigenerazione urbana può diventare uno strumento di esclusione se non viene governata con una visione inclusiva. Non basta ripensare gli spazi, bisogna anche chiedersi chi ne beneficerà” sottolinea Chiara Lodi Rizzini, di Percorsi di secondo welfare (Doppiozero).

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Le trasformazioni urbane tra centro e periferia
Milano e il territorio metropolitano hanno vissuto negli ultimi anni profonde trasformazioni. Grandi interventi hanno ridisegnato l’assetto urbano: ex aree industriali diventate complessi residenziali di lusso, vecchie stazioni ferroviarie trasformate in hotel e nuovi centri direzionali sorti in zone un tempo marginali. “Il rischio è che Milano diventi una città per soli ricchi, con quartieri popolari sempre più compressi e alloggi inaccessibili ai ceti medi” avverte Elena Granata, urbanista e docente al Politecnico di Milano (Change Makers). Secondo Alessandro Coppola, professore di Pianificazione e Politiche urbane al Politecnico di Milano, “Milano si è comportata come un sifone di investimenti immobiliari, attirando una quota crescente della ricchezza nazionale, ma senza esercitare sufficiente potere negoziale sui privati per garantire alloggi sociali e servizi pubblici di qualità” (Cara e inaccessibile Milano nega il diritto alla città, La Lettura – Corriere della Sera). Inoltre, molti interventi di ristrutturazione e riqualificazione hanno innescato processi di gentrificazione, con l’aumento del valore degli immobili che ha progressivamente spinto fuori dalle aree riqualificate i residenti a basso reddito. Questa dinamica ha aggravato le diseguaglianze urbane, anziché ridurle. “La rigenerazione non può limitarsi a trasformare il contesto fisico della città, ma deve anche incidere sulla qualità della vita e sul benessere sociale”, afferma Lodi Rizzini. “Prima di parlare di rigenerazione urbana dovremmo chiederci chi la sta realizzando, con quali obiettivi e per chi” spiega Carlo Cellamare, professore di urbanistica all’Università La Sapienza di Roma, e sottolinea la necessità di un approccio più inclusivo, che non si limiti alla riqualificazione estetica delle città, ma coinvolga attivamente i cittadini nel processo decisionale: “Troppo spesso questi progetti restano focalizzati sulla valorizzazione fisica degli spazi senza mettere in campo azioni interdisciplinari e senza il coinvolgimento attivo degli abitanti” (La rigenerazione senza abitanti, Territorio senza governo, a cura di G. Storto, DeriveApprodi 2020).
Lodi Rizzini, sempre nel suo articolo, individua tre dimensioni chiave per un’efficace rigenerazione urbana: “la dimensione fisica, ovvero gli interventi materiali sugli edifici e gli spazi; la dimensione culturale, legata alla percezione e alla rappresentazione che gli abitanti hanno del luogo; e infine la dimensione sociale, che riguarda le caratteristiche economiche e demografiche della comunità”. Solo integrando questi tre livelli si può garantire un rilancio sostenibile dei territori. Affinché questi processi siano realmente efficaci, è necessario andare oltre la semplice riqualificazione fisica di edifici e spazi pubblici, ponendo al centro il miglioramento della qualità dell’abitare.
In questa prospettiva, la rigenerazione urbana non si limita al contesto cittadino, ma riguarda anche le aree rurali e i territori non urbani, come evidenziato nel volume “Leggere la rigenerazione urbana. Storie da “dentro” le esperienze” (autori vari, Newfabric – Pacini Editore). Sono due i concetti chiave che emergono da questa riflessione: cittadinanza e benessere. Cittadinanza, perché la rigenerazione è un processo che passa per la riattivazione delle relazioni di comunità, il recupero e la valorizzazione di spazi sottoutilizzati e la presa in carico di funzioni tradizionalmente affidate all’ente pubblico, ma che spesso restano inattuate per mancanza di risorse, passione e senso di appartenenza. Rigenerare significa anche redistribuire il potere decisionale, permettendo a chi è presente e si impegna di agire concretamente nella trasformazione del proprio contesto. Benessere, perché la rigenerazione urbana non può essere solo una questione di pianificazione e progettazione teorica, ma deve tradursi in un’esperienza vissuta. Il cambiamento progettato deve essere percepito e interiorizzato dagli abitanti, generando un miglioramento del benessere emotivo e fisico. Un esempio significativo è rappresentato dalle esperienze di co-housing, che non solo promuovono la socialità e il senso di appartenenza, ma contrastano la solitudine e favoriscono forme di mutuo aiuto, con benefici anche per la salute e la qualità della vita. Il volume suggerisce inoltre che la rigenerazione urbana debba essere accompagnata da una “cultura della cittadinanza attiva” e dal rafforzamento della coesione sociale. Questo significa includere la comunità nei processi decisionali, affinché non si limiti a subire le trasformazioni ma ne diventi protagonista. “Aggiustare, riutilizzare, reinventare le cose, – spiega Elena Granata – ci salva dalla condanna di continuare solo a consumarle. Che impiegare il proprio tempo per dare una seconda vita alle cose è un atto di civiltà, di attenzione ambientale, di sfida all’eternità. È un modo per liberarci dal possederle, dal conservarle gelosamente per sempre”.
Il ruolo del PNRR e il nodo dell’abitare
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ha destinato circa 10 miliardi di euro alla rigenerazione urbana, con l’obiettivo di promuovere l’inclusione sociale e migliorare le condizioni abitative nelle città italiane. Di questi fondi, circa 9 miliardi sono stati allocati per progetti di rigenerazione urbana e housing sociale, tra cui il Programma PINQUA, che ha distribuito 2,8 miliardi di euro tra 159 progetti, e i Piani Urbani Integrati, finanziati con 2,49 miliardi. Tuttavia, sebbene il PNRR abbia reso possibile la realizzazione di numerosi interventi attesi da tempo, emergono diverse criticità. Una delle principali riguarda il bando PINQUA, che attribuisce un punteggio aggiuntivo alla dimensione immateriale dei progetti senza però prevedere risorse specifiche per sostenerla, concentrandosi quasi esclusivamente sull’aspetto edilizio. Inoltre, le tempistiche stringenti imposte agli enti locali riducono le possibilità di coinvolgimento degli abitanti in processi di partecipazione e co-progettazione, fondamentali per un approccio integrato e sostenibile alla rigenerazione urbana. Questa rigidità amministrativa favorisce le amministrazioni più strutturate, capaci di pianificare in anticipo strategie di sviluppo, penalizzando invece quelle con minori competenze o risorse.
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Parallelamente, il tema del disagio abitativo rimane una questione irrisolta e strettamente connessa alla rigenerazione urbana. In Italia, secondo i dati del Ministero dell’Interno, sono stati emessi 39 mila provvedimenti di sfratto, di cui il 78% per morosità. Restano ancora elevate anche le richieste di esecuzione di sfratto presentate ad ufficiali giudiziali, 74 mila, così come gli sfratti eseguiti con l’intervento dell’ufficiale giudiziale, oltre 21 mila. Va ricordato, che l’offerta di edilizia pubblica nel nostro Paese è assolutamente insufficiente, con lunghi tempi di attesa per la pubblicazione delle graduatorie e ancor più lunghi (anche decennali) per l’assegnazione degli alloggi. Secondo uno studio di CGIL e SUNIA a fronte di un fabbisogno abitativo stimato in almeno 600 mila unità immobiliari. Inoltre, a fronte di 1,9 milioni di famiglie in condizioni di povertà assoluta, sono 900 mila quelle che vivono in affitto, pari al 45,3% del totale, con un’incidenza della povertà quattro volte superiore rispetto a quelle che vivono in una casa di proprietà.
Nella città metropolitana di Milano, per esempio, su 1.727.347 abitazioni censite, 1.512.673 risultano occupate mentre il restante 12% è disabitato, segno di un paradosso in cui la carenza di case popolari convive con un’elevata quota di immobili vuoti. Il Paese soffre anche per l’inefficienza nella gestione del patrimonio residenziale pubblico: l’8,3% degli alloggi popolari (circa 58.100 unità) è inutilizzato per mancanza di fondi destinati alla manutenzione. Secondo Federcasa, sarebbe necessario un incremento di almeno 200mila unità di edilizia residenziale pubblica nei prossimi 15 anni per rispondere alla domanda crescente. La soluzione proposta dagli esperti prevede il recupero del patrimonio pubblico inutilizzato e la rigenerazione di quello privato dismesso, riducendo così il consumo di suolo e promuovendo una maggiore sostenibilità urbana.
In questo scenario, il social housing viene spesso indicato come uno strumento utile per rispondere al problema abitativo, grazie agli incentivi pubblici che rendono più accessibili le abitazioni private per le fasce di reddito medio. Tuttavia, questa strategia non è priva di criticità: i criteri di accesso rigidi e le dinamiche di mercato poco trasparenti limitano la reale efficacia del modello, escludendo le famiglie più vulnerabili che avrebbero maggiore necessità di supporto. La rigenerazione urbana non può esaurirsi nella semplice riqualificazione degli spazi abitativi, ma deve essere accompagnata da una visione più ampia che integri servizi adeguati, percorsi di inclusione sociale e strumenti di welfare per garantire una qualità dell’abitare realmente migliorata. La sfida è quindi quella di trasformare la riqualificazione del territorio in un’opportunità concreta per combattere il disagio abitativo, evitando che si riduca a un’operazione di semplice restyling urbano senza impatti strutturali sul tessuto sociale.
Rigenerazione urbana dal basso: quando la città rinasce dai cittadini
La rigenerazione urbana non è solo una questione di grandi piani istituzionali. Esiste un altro modello, meno visibile ma altrettanto incisivo: quello che parte dal basso, un processo in cui gruppi di cittadini, comitati, associazioni e movimenti trasformano spazi in disuso in luoghi vivi e funzionali, rispondendo ai bisogni della comunità. “I processi spontanei – spiega la ricercatrice Lodi Rizzini – possono produrre rigenerazione urbana anche senza ristrutturazione edilizia”. Il punto chiave non è solo l’intervento architettonico, ma la capacità di restituire valore sociale a spazi abbandonati. Un concetto che, per il professor Cellamare, riflette una dinamica in cui “le esperienze di autorganizzazione esprimono una capacità di definire politiche e sviluppare progettualità che in alcuni casi sembra essere venuta meno alla pubblica amministrazione”.
Chi fa rigenerazione dal basso?
La rete di attori che porta avanti questi processi è ampia e diversificata. Ci sono i comitati di quartiere, associazioni culturali e sociali, i movimenti per il diritto all’abitare e persino realtà politiche che intervengono su temi come l’ambiente, la cultura e la coesione sociale. Un esempio emblematico è quello delle occupazioni di stabili vuoti, spesso ex uffici pubblici o ex scuole ceduti a fondi immobiliari, trasformati in spazi abitativi e sociali. Qui, accanto all’autocostruzione, nascono servizi di mutualismo come doposcuola, sportelli per l’accesso alla sanità e laboratori teatrali, dimostrando che la rigenerazione urbana non è solo una questione edilizia, ma anche di accessibilità e inclusione.
Ma non sono solo le occupazioni a trainare il cambiamento. In tutta Italia, associazioni culturali e di promozione sociale, spesso con il sostegno di fondazioni private o attraverso bandi pubblici, danno nuova vita a spazi dismessi in territori segnati dalla disgregazione economica e sociale. L’obiettivo? Creare luoghi di aggregazione, cultura e servizi che restituiscano centralità ai cittadini.
Un altro strumento chiave per la rigenerazione urbana dal basso è rappresentato dai Patti di collaborazione, accordi tra cittadini e amministrazioni per la gestione di beni comuni. Secondo il Rapporto 2021 dell’associazione Labsus (https://www.labsus.org/wp-content/uploads/2022/03/LABSUS_Rapporto-2022_LOW.pdf ) al 30 settembre 2021 erano 252 i comuni italiani ad aver adottato un regolamento per la stipula di questi patti, con migliaia di documenti firmati, soprattutto nelle regioni del Nord. La maggior parte riguarda la cura di parchi e giardini (42,7%), seguiti da piazze e vie (17,58%), edifici e ville (8,59%) e scuole (6%). Milano è tra i comuni della Lombardia che hanno adottato il regolamento per l’amministrazione condivisa e si caratterizza per un alto livello di multiattorialità, tra cui associazioni, gruppi informali, scuole, imprese sociali e cittadini singoli. Anche nel territorio metropolitano l’amministrazione condivisa sta guadagnando terreno, 12 comuni (Arese, Arluno, Cinisello Balsamo, Corsico, Cusano Milanino, Magenta, Ozzero, Parabiago, Rescaldina, San Donato Mil.se, Senago, Vimodrone) su 133 hanno approvato e pubblicato il Regolamento sulla gestione dei beni comuni. Di questi, otto hanno stipulato patti di collaborazione. Nonostante il dinamismo di Milano e della sua provincia, permane una sfida comune: la trasparenza e l’accessibilità alle informazioni. Non sempre è semplice per i cittadini conoscere i dettagli dei patti esistenti, il che limita le possibilità di una partecipazione più ampia e inclusiva. Tuttavia, l’area metropolitana milanese si conferma un laboratorio di innovazione sociale e amministrativa, dimostrando che il modello di gestione condivisa dei beni comuni può essere una risorsa strategica per migliorare la qualità della vita urbana e favorire il senso di comunità.
Oltre la rigenerazione: il nodo della sostenibilità
Rigenerare un edificio o uno spazio pubblico non basta. Perché un progetto funzioni davvero, deve essere sostenibile nel tempo, sia dal punto di vista economico che sociale. “Un edificio riqualificato senza un progetto chiaro e senza una funzione definita rischia di restare vuoto e di finire nuovamente abbandonato”, avverte Chiara Lodi Rizzini. Ecco perché è fondamentale che i comuni che ricevono fondi per la rigenerazione urbana pensino fin da subito alla gestione degli spazi riqualificati. Coinvolgere la comunità con percorsi di coprogettazione e partecipazione attiva può fare la differenza tra un intervento di successo e un ennesimo spazio lasciato a se stesso. La rigenerazione urbana dal basso rappresenta dunque un’alternativa concreta e partecipata alla trasformazione delle città, ma per evitare che diventi un fenomeno isolato, occorre un cambio di passo nelle politiche pubbliche. Solo integrando questi processi spontanei in strategie di lungo termine, si potrà parlare di una rigenerazione urbana davvero inclusiva e sostenibile.
Fonti e riferimenti
Rapporto ISTAT 2021 – link
Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili (PNRR) – link
Dal PNRR oltre 3 miliardi per Milano e Lombardia, www.italiadomani.gov.it
Labsus Report 2022 – link
Cgil e SUNIA: emergenza abitativa non si arresta – link
Doppiozero, Change Makers, Slow News, Secondo Welafare, “Cara e inaccessibile Milano nega il diritto alla città” (La Lettura, Corriere della Sera)
Leggere la rigenerazione urbana. Storie da “dentro” le esperienze, a cura di Carlo Andorlini, Luca Bizzarri, Lisa Lorusso, collana “New Fabric” Pacini Editore