Un non profit più etico Come? Imitando il profit con cinque regole per cambiare
Una ricerca americana durata 12 anni rivela come il Terzo settore possa migliorare la propria reputazione. E dal Regno Unito indicano la strada da seguire
di Paolo Marelli
«Se non riesci a sederti a meno di un metro di distanza da un donatore e a guardarlo dritto negli occhi spiegandogli esattamente come sono state spese le sue cinque, cinquanta o, addirittura, diecimila sterline, beh, allora non spenderli tu in prima istanza». È la lezione appresa sul campo di un grande esperto di trasparenza e solidarietà, Ben Summerskill, direttore del Criminal Justice Alliance, un consorzio di 120 organizzazioni di volontariato che lavorano sulla giustizia penale in Gran Bretagna. Un Paese che, fra i primi al mondo, ha fatto della fiducia e chiarezza sulla beneficenza una leva per lo sviluppo del Terzo settore. Tanto che Oltremanica è attivo un portale web la Charity Commission per raccogliere storie, numeri e progetti delle associazioni non profit di Inghilterra e Galles mettendoli a disposizione dei cittadini.
Summerskill, ex numero uno dell’associazione “Stonewall”, la più grande in Europa per i pari diritti degli omosessuali, ama far seguire il suo insegnamento da un episodio vissuto sulla propria pelle. Ha raccontato sulle pagine del “Guardian”, di cui è commentatore: «Qualche anno fa una fattoria ha pubblicato un annuncio per informare che avevano urgente bisogno di raccogliere fondi per acquistare la bardatura per un cavallo. Ho inviato 200 sterline. Come ringraziamento ho ricevuto una lettera nella quale mi si invitava alla fattoria per conoscere il cavallo. Ma, nel momento in cui ho telefonato per fissare il giorno della visita, mi hanno risposto che il cavallo era stato trasferito altrove. Così non avevo alcun modo di verificare come fossero stati spesi i soldi della mia donazione. Inoltre, i titolari sono stati anche vaghi su dove si trovasse il cavallo e, quindi, la sua bardatura». Un episodio di cattiva trasparenza che sollecita una riflessione sull’importanza della comunicazione sulle donazioni e la loro gestione da parte delle realtà non profit.
Le cinque regole da conoscere
Non solo nel Regno Unito, ma anche in Italia, dopo che la Riforma ne ha fatto uno dei suoi pilastri, la trasparenza è ai primi posti dell’ordine del giorno nel Terzo settore. Anche perché non va affatto dimenticato che, lo scorso anno, nell’Indice di corruzione percepita nel settore pubblico e politico l’Italia si è classificata terzultima tra gli Stati europei. Peggio di noi hanno fatto solo Grecia e Bulgaria. La Gran Bretagna è decima in graduatoria, mentre sul gradino del podio ci sono Svezia (terza), Finlandia (seconda) e Danimarca (prima).
È vero che il non profit non è un parametro di calcolo, ma l’indagine ha fatto capire che sul fronte della trasparenza il nostro Paese ha una irta salita davanti a sé. Eppure tornando al volontariato, a tutte le latitudini del Vecchio Continente è spesso scoraggiante per le organizzazioni di solidarietà mettere sotto la lente d’ingrandimento i propri conti e attività. Di recente, sempre sul “Guardian”, un gruppo internazionale di esperti di volontariato ha discusso il motivo per cui, per quanto tortuosa possa essere la strada verso la trasparenza, quest’ultima sia essenziale per il futuro del non profit. Questo panel di esperti ha individuato cinque regole a cui dovrebbero attenersi le associazioni. Anzitutto, rendere noti compensi di dirigenti, dipendenti e rimborsi spese dei volontari. Secondo, non aver paura delle critiche. Nessuno potrà mai essere d’accordo su tutto ciò che si fa, ma una piena comunicazione ha un ruolo chiave nel costruire (e mantenere) la fiducia dei donatori. Terzo, quando le persone pensano alle organizzazioni di volontariato hanno in mente le piccole associazioni locali in cui il numero dei volontari è elevato e quello dei dipendenti si conta sulle dita di una mano. Eppure, ci sono anche enormi e complesse realtà del non profit che movimentano un ingente giro d’affari, con addetti e manager. Dobbiamo aiutare le persone a capire che esiste un ampio ventaglio di organizzazioni che va sotto il cappello della solidarietà. Quarto, gli enti non profit possono migliorare i propri livelli di trasparenza, dimostrando e comunicando la ricaduta dell’attività sociale e l’impatto di ciò che si fa. Quinto, le organizzazioni devono essere sincere sulle loro diverse risorse finanziarie. Essendo chiari su chi finanzia che cosa, i donatori possono conoscere chi altro sta aiutando l’associazione. Inoltre va assicurato che la rivelazione di tali informazioni non sia una brutta china verso la messa in discussione dello status solidale e filantropico di alcuni enti rispetto ad altri.
Charity Commission, modello da esportare
Di fronte a una crescente domanda di trasparenza nel non profit nel Regno Unito e su impulso del governo di Sua Maestà, è stata realizzata la Charity Commission, un piattaforma online, un gigantesco archivio di informazioni, bilanci, spese per l’amministrazione, attività, membri del board, obiettivi, statuti e compensi dei dirigenti. Un montagna di dati che radiografa ciascun ente di solidarietà. Un modello efficace da esportare anche nel nostro Paese, come confermava, in un precedente numero di “Vdossier”, Transparency International Italia, l’associazione non governativa che dal 1996 è impegnata nella sfida sulla trasparenza per combattere la corruzione nel nostro Paese. «Un portale istituzionale – spiegano – in cui le informazioni siano visualizzate in maniera omogenea per tutti quanti le vogliano conoscere, servirebbe anche da noi».
Questo auspicio di Transparency si rafforza anche sulla scia degli scandali che, con vicende di malaffare, frode e truffa accadute in un recente passato, hanno scosso l’Italia. Ma la sfida della trasparenza non va vinta soltanto in nome della legalità. Del resto, in un periodo di crisi economica, o di ristrettezza dei portafogli familiari, quando il budget di casa è messo sotto pressione, non ci si può sorprendere che i donatori siano più inclini a valutare con attenzione la causa da sostenere. Così come a ponderare di più la cifra da elargire. In questo scenario, i concetti di fiducia e chiarezza giocano un ruolo cardine: i benefattori devono essere sicuri che la realtà non profit che invoca un aiuto economico sia davvero ciò che dice di essere e, al contrario, non abusi della sua patente di gratuità o non raccolga fondi con metodi moralmente o legalmente discutibili. Secondo l’ultima indagine sul business della beneficienza svoltasi nel Regno Unito nel 2012, i donatori chiedono di avere accesso a tutte le informazioni di cui hanno bisogno prima di dare il loro contributo: cifre sul compenso dello staff, sulla gestione dei costi di amministrazione, sulla porzione di fondi statali e cosi via. «Essere trasparenti – osservava il quotidiano “The Daily Telegraph” – è una responsabilità degli enti non profit e di coloro che si occupano della raccolta fondi. Senza questo requisito, la fiducia nella serietà e credibilità delle realtà benefiche è destinata a scomparire, così come le donazioni attraverso le quali dipende una vasta parte della loro attività».
Business della beneficenza, la lezione americana
Con un balzo dall’altra parte dell’Atlantico, negli Stati Uniti, dalle aule della Stanford Graduate School of Business, un tempio per lo studio del Terzo settore sia in America che nel resto del mondo, arriva un lezione a stelle e strisce sulla trasparenza. Sulla spinta di un plotone di donatori e consulenti che, a partire dagli anni Novanta, invocavano una maggiore franchezza e chiarezza degli enti non profit sul modello delle imprese profit, il sociologo Walter Powell, insieme a un team di laureati, ha raccolto la sfida: dal 2002 e per i successivi dodici anni ha seguito un campione casuale di 200 organizzazioni di volontariato che gravitano nella Baia di San Francisco, impegnate in un ampio spettro di attività di solidarietà: dai servizi alla persona all’educazione, dall’ambiente alle arti.
Qual è stato il risultato della sua lunga ricerca? Powell e i suoi giovani studiosi hanno scoperto che gli enti non profit che per primi si sono dotati di pratiche manageriali al loro interno sono stati in grado di diventare più trasparenti e collaborativi in un arco di tempo più breve.
Sulle pagine della rivista della Stanford Graduate School of Business, il professor Powell ha detto che «nella prima parte dello studio abbiamo notato una crescente tendenza all’adozione di processi manageriali comunemente associati con le aziende profit». Spiega che «tante organizzazioni avevano già iniziato a servirsi di revisori per mettere a punto analisi finanziarie interne. Altre avevano assunto consulenti esterni per sviluppare e valutare programmi dell’associazione stessa e per aiutarla con la pianificazione strategica». E ancora: «Avevano anche impiegato una forma di autovalutazione comune tra le aziende del profit: facevano ampio uso dell’analisi Swot (uno strumento di pianificazione strategica per valutare punti di forza, debolezze, opportunità e minacce di un progetto). Inoltre una nuova enfasi sulle performance interne e sull’acume finanziario hanno portato le organizzazioni a cambiare anche i loro meccanismi di assunzione e a reclutare quindi staff e dirigenti con elevati standard accademici».
Più di un decennio dopo (nel 2016) il team di ricerca capitanato da Powell è tornato a visitare le stesse realtà non profit: più di 175 sono ancora attive, nonostante la crisi economica del 2008. Stavolta i ricercatori hanno fatto uso di indagini online ed esaminato documenti fiscali e siti web e profili social. Hanno trovato che queste organizzazioni, specialmente quelle che prima di altre avevano adottato pratiche orientate al business, hanno fatto non solo passi enormi sulla via della pianificazione strategica, ma anche sull’efficienza della propria attività, sulla valutazione dell’impatto sociale, sulla consapevolezza nell’uso di internet e dei social media per interagire con istituzioni, volontari, stakeholder e cittadini pubblicando documenti contabili e fiscali, report annuali sulle attività e finanziamento dei progetti. «Parecchie di quelle realtà non profit – ha osservato il sociologo americano – usano i social media per sollecitare contributi e fare in modo che i membri della loro comunità partecipino nel processo decisionale. Parte di ciò che stiamo vedendo è una maggiore apertura e trasparenza». Infine è stato rilevato che gli enti del Terzo settore studiati nella ricerca sono sempre più inclini a guardare le organizzazione che agiscono allo stesso modo, che sono sintonizzate sulla stessa lunghezza d’onda, scacciando lo spettro della concorrenza e rimpiazzandolo con partnership e alleanza.
Qui Italia: lotta a sprechi e inefficienze
In questo giro del mondo sulla trasparenza non poteva mancare anche una tappa a casa nostra. Cinzia Di Stasio, segretario generale dell’Istituto italiano per la donazione, un ente di riferimento per l’intera Penisola, in un’intervista a Rai economia, ha fatto notare che «i cittadini quando devono donare, cercano enti del Terzo settore che diano informazioni trasparenti sui progetti per i quali chiedono aiuto». Le persone, di solito, passano al setaccio il sito dell’organizzazione, esaminando le schede del progetto che vogliono sostenere. Secondo Di Stasio, le richieste di informazioni del donatore sono concrete: «Si interessa ai numeri del singolo progetto, vuole sapere quanto l’organizzazione spende per le proprie iniziative e quanto per gestione, struttura e attività».
Un’indagine di Eurisko e Istituto per la donazione ha rilevato che per gli italiani il 50% dei fondi raccolti è destinato ai progetti e la metà rimanente alle spese di gestione. Ma in realtà quale sarebbe la percentuale che si augurano che le organizzazioni usino per i progetti? I donatori hanno risposto che vorrebbero che il 70% dei fondi andasse alle iniziative e il 30% ai costi di struttura. Opinioni a cui un’associazione dovrebbe prestare attenzione, così come nell’innalzare efficienza e operosità e nell’abbattere sprechi e negligenze. «Il donatore italiano – ha sottolineato Di Stasio – ha una grande fiducia nel Terzo settore. Crede che possa contribuire realmente a far fronte ai bisogni sociali della collettività, riconosce il valore morale ed economico del non profit, ma dall’altro si accorge che ci sono dei problemi strutturali che accomunano tutte le organizzazioni». Facendo leva ancora sulla forza delle cifre – l’80% dei cittadini ha rimarcato un eccesso di frammentazione nel Terzo settore e il 70% ha adombrato il sospetto di brogli o la sottrazione di denaro, così come la stessa percentuale ha denunciato il timore di inefficienze e sprechi – emerge che gli italiani sono spesso disorientati. «Il non profit – ha suggerito il segretario generale – dovrebbe comunicare meglio ciò che fa. Dovrebbe essere più trasparente nell’enunciare i propri progetti. Talvolta questi sembrano poco concreti, lacunosi, imprecisi, mal scritti e hanno una esigua rendicontazione». Non a caso, il 53% del campione ha dichiarato poca capacità progettuale da parte delle organizzazioni non profit.
Un segnale di salute morale
Ma cosa vuol dire essere leader trasparenti, creare organizzazioni trasparenti e vivere in una cultura globale sempre più votata alla trasparenza? È l’interrogativo a cui rispondono tre studiosi americani: «La trasparenza si lega alla franchezza, all’integrità, alla correttezza, alla chiarezza, all’apertura, al rispetto delle regole (…). In un universo relazionale, in cui la competizione è globale e basta il semplice click di un mouse per distruggere una reputazione, la trasparenza è una questione di sopravvivenza», sostiene Warren Bennis, che insegna business administration all’Università della California del Sud e da anni è studioso della leadership. Bennis, nel volume scritto con lo psicologo Daniel Goleman e James O’Toole (professore di business ethics all’Università di Denver), dal titolo “Trasparenza”. Spiegano: «Collaborazione e collegialità aumentano la trasparenza, che a sua volta porta al successo. La sua mancanza, invece, erode la fiducia e scoraggia la partecipazione. (…) Come la democrazia, la trasparenza non è facile. Esige coraggio e pazienza, sia da parte dei leader sia dei subalterni. Richiede anche un considerevole investimento di tempo, non fosse altro che per condividere le informazioni con una cerchia di persone molto più ampia. (…) Rispettare ogni singola persona trasmettendole le informazioni di cui ha bisogno è la quintessenza della trasparenza. Essa è un segno della salute morale di un’organizzazione». E concludono: «Se le organizzazioni hanno qualcosa da insegnarci in campo etico è proprio che la fiducia è un fattore decisivo della loro efficacia». Come «in un sistema al collasso la trasparenza è l’unica salvezza».