C’è una nazione senza confini con 83 milioni di cittadini impegnati nel non profit
Il Terzo settore è in crescita nell’Ue. Ormai dà lavoro a 13,6 milioni di persone. Gli enti sono 2,8 milioni. La metà delle loro entrate è frutto della propria attività
di Elisabetta Bianchetti
È come una nazione senza confini. E quella del non profit. Che cresce, anno dopo anno, dentro l’Unione europea. Trasversalmente: da Nord a Sud, da Est a Ovest. Da Berlino ad Atene, da Lisbona a Tallinn. Un Paese senza dogane la cui popolazione ha ormai toccato quota 82,8 milioni di persone, tutte in missione per conto della solidarietà. Tanti sono infatti i volontari – su un totale di 500 milioni di abitanti – impegnati nei 28 Stati membri della Ue (Regno Unito compreso), che dedicano gratuitamente il loro tempo libero al prossimo, un impegno pari a 5,5 milioni di lavoratori impiegati in media quaranta ore la settimana. Il dato e contenuto in uno studio del Comitato economico e sociale europeo “Recent evolutions of the Social Economy in the European Union” del 2016. Un report in cui e compresa anche la galassia del volontariato made in Gran Bretagna, poiché allora a Londra la Brexit era solo una promessa elettorale. Sotto il comun denominatore di un’analisi dell’economia sociale nel Vecchio continente, la ricerca condotta da un’équipe di studiosi guidata dal torinese Luca Jahier, fotografa nelle sue 130 pagine una galleria di numeri che permettono di cogliere l’importanza e il peso che il non profit ha e avrà nel futuro dell’Unione europea che, dal 23 al 26 maggio di quest’anno, rinnoverà il Parlamento di Strasburgo, il suo motore legislativo.
Sebbene il non profit in Europa non abbia una carta d’identità valida per definizione, univocità e precisione; sebbene le attività non a fini di lucro abbiano fenomenologie e fisionomie diverse nei singoli Stati membri, rimane il fatto che l’economia sociale dei Ventisette (Gran Bretagna esclusa) possa contare su 2,8 milioni di imprese e organizzazioni, su più di 232 milioni di soci di cooperative, mutue ed enti analoghi.
Una rete capillare di realtà a servizio dei beni comuni e del welfare, che dispone di oltre 13,6 milioni di posti di lavoro retribuiti. Inoltre dal dossier messo a punto dal team di Jahier, emerge che a servizio della solidarietà nella Ue ci sia il 6,3 per cento della popolazione. Un primato a termine però per il Vecchio continente, considerato che il non profit è simile a un giardino fiorito che, silenziosamente e instancabilmente, continua a crescere in città e paesi dell’Europa unita.
Volontariato antidoto al divario ricchi-poveri
Sempre guardando al futuro, c’è da sottolineare che la galassia delle realtà non profit avranno sempre più ruolo decisivo nella società civile considerato che, come sostiene l’economista americano Joseph Stiglitz (premio Nobel 2001), l’aumento del divario tra ricchi e poveri è incessante e inevitabile, poiché conseguenza di scelte politiche il cui scopo era proprio la sperequazione. «Il mondo è sempre più diseguale ed è ormai evidente che non solo esistono elevati livelli di disuguaglianza nella maggior parte dei paesi, ma che queste disparità sono in aumento. Oggi, esse sono molto più pronunciate di quanto non lo fossero trenta o quaranta anni fa. È anche chiaro che non esistono eguali opportunità per tutti: le prospettive di vita dei figli di genitori ricchi e istruiti sono molto migliori di quelle di chi ha genitori poveri e meno istruiti», ha detto Stiglitz, nel novembre 2017 a Bologna, nel corso della Conferenza internazionale sulle diseguaglianze promossa dalla Fondazione di ricerca dell’Istituto Cattaneo. E sempre l’economista americano, insieme ai colleghi Amartya Sen e Jean Paul Fitoussi, ha messo a punto nel 2009 un rapporto su Pil, benessere e politiche. I tre studiosi, nella loro misurazione delle prestazioni economiche e del progresso sociale, hanno sottolineato la necessità di «spostare l’accento dalla misurazione della produzione economica alla misurazione dell’essere». Hanno inoltre evidenziato l’importanza che rivestono le istituzioni del Terzo settore nel fornire servizi collettivi e individuali come la sicurezza, la salute, l’istruzione, la cultura e le attività ricreative, nonché l’impegno civico e il capitale sociale.
Su questa linea di pensiero, prima il Consiglio dell’Unione europea nel 2015, poi il Comitato economico e sociale europeo, hanno rimarcato di avere dati aggiornati e coerenti sul settore per poter misurare l’impatto sociale. Del resto, non soltanto è stato riconosciuto l’apporto cruciale dell’attività volontariato all’interno del Terzo settore, ma anche il contributo fornito dai volontari alla coesione sociale ed economica nelle comunità europee.
Un altro studio del 2018, “The Size and Composition of the European Third Sector. Concepts, Impacts, Challenges and Opportunities” https://link.springer.com/book/10.1007/978-3-319-71473-8 a cura di Bernard Enjolras, Lester M. Salamon, Karl Henrik Sivesind, Annette Zimmer, evidenzia come il Terzo settore sia un’enorme forza economica pari a quasi il 13% della forza lavoro europea con oltre 29 milioni di addetti – di cui il 55% composto da volontari – che occupa il terzo posto nella classifica delle industrie solo dopo l’industria manifatturiera e il commercio.
Il non profit mobilita quindi quasi 16 milioni di volontari di cui circa 7 milioni svolgono la propria attività nelle organizzazioni, mentre circa 9 milioni lo fanno a beneficio di altre persone, della comunità o dell’ambiente per proprio conto. Questa capacità di mobilitare un vero esercito di cittadini è un altro valore che mostra la forza del Terzo settore.
Scandagliando la fotografia scattata da questo rapporto risulta che le organizzazioni non profit in Europa svolgono una moltitudine di funzioni sociali. Prima di tutto, sono fornitori di servizi quali assistenza sanitaria, istruzione, protezione ambientale, soccorsi in caso di calamità e promozione dello sviluppo economico. Oltre a questo, sono difensori politici, in quanto promotori di un senso di comunità; sono testimoni dell’iniziativa individuale per il bene comune e veicolo di espressione di una miriade di interessi e valori (religioso, etnico, sociale, culturale, razziale, professionale o di genere).
Per avere un’idea delle attività svolte dal Terzo settore la ricerca le ha suddivise in tre funzioni: di servizio, espressive e altre funzioni. La funzione di servizio comprende attività nei settori dell’istruzione, dei servizi sociali, dell’assistenza sanitaria e dell’edilizia abitativa e dello sviluppo della comunità. Per esempio l’azione volontaria diretta, che per definizione comporta l’aiuto ad altre famiglie, è considerata un’attività di servizio. La funzione espressiva invece comprende attività culturali e ricreative, organizzazioni associative, compresi sindacati, organizzazioni imprenditoriali e professionali, organizzazioni ambientaliste e congregazioni religiose. Infine, nelle altre funzioni sono comprese attività di beneficenza, organizzazioni internazionali, nonché attività non classificate altrove. Dati i limiti dei dati esistenti, non è possibile una misurazione del volume delle tre attività. Il rapporto stima che la stragrande maggioranza, pari al 72%, sia dedicata alle funzioni di servizio, mentre il 24% riguardi l’attività espressiva.
Le entrate
Sempre secondo lo studio del 2018, riguardo ai finanziamenti, al contrario di quanto molti osservatori tendono a credere, le donazioni private rappresentano una quota relativamente piccola delle entrate del settore, pari al 9% circa di quelle complessive. Al contrario, i redditi da contributi per beni e servizi, quote associative e redditi da investimenti, rappresentano in media il 54%, mentre il sostegno da parte dei Governi che comprende sovvenzioni, contratti e rimborsi per servizi resi, costituiscono il 37% delle entrate. Mentre per quanto concerne l’aspetto giuridico è suddiviso in quattro tipologie: organizzazioni non profit, cooperative e mutue, imprese sociali e tutte le attività di volontariato diretto.
Questa suddivisione comporta alcune complicazione nel panorama europeo perché alcuni dati non sono affidabili oppure non sono disponibili. Inoltre, solo alcune cooperative, associazioni mutualistiche e imprese sociali soddisfano le caratteristiche per rientrare nel Terzo settore: cioè non essere governate dallo Stato e non prevedere la redistribuzione dei profitti. Lo stesso vale anche per il volontariato che non deve andare a beneficio dei propri familiari. Inoltre sono dati incompleti perché solo diciotto Paesi europei sono coperti dalle statistiche nazionali. Per gli altri sono state utilizzate medie calcolate separatamente per l’Europa occidentale e orientale. Infatti nonostante a livello internazionale siano state sviluppate procedure statistiche ufficiali per generare dati comparativi misurabili, le agenzie statistiche europee sono state lente nell’adottare queste procedure.
I numeri del volontariato
Gli ultimi numeri che scattano un’istantanea convincente della generosità attraverso le linee geografiche dell’Europa provengono dalla pubblicazione “Living conditions in Europe” del 2018. Il report attinge dai dati aggregati di Eurostat EU-SILC sul reddito e sulle condizioni di vita della popolazione dai 16 anni in poi relativi al 2015, l’anno più recente disponibile.
Le cifre mostrano che circa un quinto della popolazione dell’UE 28, dai 16 anni in su, ha partecipato ad attività di volontariato formale (il 18%), mentre il 20,7% in attività di volontariato informale. L’indagine svela che gli europei che svolgono attività di volontariato formale tendono ad essere uomini di età compresa tra 65 e 74 anni, con un medio- alto livello di istruzione e di reddito alto che vivono nelle aree rurali. Mentre per il volontariato informale è maggiore la percentuale di donne che vivono in città.
Sempre secondo le statistiche di Eurostat raggruppate per Stato, i residenti del Lussemburgo risultano i primi nella speciale classifica di chi opera per la solidarietà attraverso gruppi o organizzazioni. Hanno superato gli altri 27 Stati europei con un tasso pari al 34,8% della popolazione. Al secondo posto con poco più di un quarto troviamo Germania, Paesi Bassi, Austria, Danimarca e Svezia, Svizzera e Norvegia. Fanalino di coda i nove Stati in cui partecipa meno di 1 adulto su 10, principalmente situati nell’Europa orientale e meridionale, con la quota più bassa registrata in Romania (3,2%) seguita da Bulgaria, Cipro, Lettonia, Malta, Portogallo, Serbia, Slovacchia e Ungheria. Mentre per quanto riguarda i volontari che dedicano del tempo a beneficio di altri per proprio conto, a guidare la graduatoria dei migliori ci sono i Paesi Bassi (58,0%), seguiti da Norvegia (52,7%), Finlandia (52,2%), Polonia (50,6%) e Svezia (49,9%) completano la top five. Ultimi in classifica, invece, con una partecipazione inferiore al 10% Ungheria, Bulgaria, Romania, Cipro e Malta. Quindi, in tutta l’Unione europea, il volontariato informale è leggermente superiore (20,7%) a quello formale (18%), anche se, in alcuni Stati, la partecipazione ad attività informali è maggiore del 20% rispetto a quelle formali. Ciò accade in Polonia, Paesi Bassi, Finlandia, Svezia e Lettonia e Islanda. Al contrario, in Germania il volontariato formale è del 17,1 % in più rispetto a quello informale.
Le statistiche indicano che le persone che hanno livelli più alti di istruzione sono più propense a fare volontariato. Nel 2015 più di un quarto (26,2%) della popolazione UE-28 ha partecipato a attività di volontariato formale. Lo stesso vale per i volontari informali che nel 27,3% presentano livelli più alti di istruzione. In controtendenza la Svizzera dove le persone con un livello medio scolastico hanno un tasso di partecipazione leggermente superiore (49,7%) per le attività di volontariato informale rispetto alle persone con elevati standard formativi (48,4%). Nel 2015, il 22,4% degli adulti dell’UE-28 afferma di non avere sufficiente tempo libero per partecipare alle attività di volontariato formale, mentre il 21,3% non lo ha per quelle informali. La percentuale è più alta tra coloro che hanno un livello di istruzione inferiore e di reddito inferiore.