Una primavera per la militanza. Perché nell’Italia di oggi torni la passione civile e politica
Corsi e ricorsi della partecipazione sociale: così l’associativismo è scuola di democrazia. Punti in comune e differenze tra associazioni, partiti e movimenti
di Emanuele Polizzi, ricercatore dell'Università Bicocca
Quando si parla del rapporto tra partecipazione sociale, cioè l’essere impegnati in attività sociali, e partecipazione politica, cioè l’essere impegnati in attività politiche, è utile distinguere il piano delle retoriche da quello della realtà effettiva.
Stando sul piano delle retoriche, si direbbe che i due tipi di partecipazione siano ben distinti, per non dire separati. Chi fa attività associativa tiene normalmente a precisare di non fare politica. I rappresentanti politici, a loro volta, sottolineano spesso di non essere in realtà dei professionisti della politica, che i loro gruppi sono movimenti e non certo partiti e negli ultimi anni diversi eletti nelle assemblee rappresentative sottolineano di essere lì come “cittadini” e non come “politici”. In un tempo di discredito della politica, l’impegno politico è dunque rappresentato come qualcosa di autoreferenziale o addirittura corrotto, a differenza dell’impegno associativo, che invece è generalmente visto come sano e disinteressato.
La mappa dei punti in comune
In realtà, se usciamo da questa diffusa retorica antipolitica, la ricerca sociale ci dice che tra partecipazione associativa e partecipazione politica vi è una parentela molto stretta. Entrambe infatti sono modalità con cui gruppi di persone che condividono gli stessi interessi o gli stessi valori si organizzano per perseguirli insieme, acquisendo così maggior efficacia rispetto al farlo individualmente. In questo senso, la citatissima frase di don Milani, per cui: «Il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica, sortirne da soli è l’avarizia», potrebbe essere utilizzata anche da quelli che stanno in un’associazione. Dunque la molla fondamentale della partecipazione sociale e di quella politica è la stessa.
Ma anche molti dei meccanismi di funzionamento delle attività associative sono simili a quelle politiche. In entrambe infatti occorre la capacità di costruire un consenso interno al gruppo, per far prevalere il proprio orientamento, e un consenso esterno al gruppo, per evitare che le proprie attività vengano ostacolate dall’ambiente circostante.
Ancora, in entrambe serve avere una capacità organizzativa per far funzionare le attività, una capacità di comunicazione per renderle pubbliche e una capacità di raccolta fondi per finanziarle. Infine, tanto nelle associazioni quanto nei gruppi politici gli attivisti agiscono principalmente per passione e non per remunerazione, dato che solo un limitato numero di persone, peraltro sempre più ristretto, viene pagato per svolgere l’attività.
Le differenze fra i due tipi di impegno
Dove sta allora la differenza tra i due tipi di impegno? La distinzione fondamentale sta nel fatto che la partecipazione associativa punta a raggiungere i propri obiettivi organizzando dal basso le attività per realizzarli. La partecipazione politica invece tenta di raggiungere i propri obiettivi direttamente e apertamente, puntando a influenzare le decisioni di chi detiene il potere sulla cosa pubblica. In altri termini, possiamo dire che l’impegno sociale agisce orizzontalmente sulle persone, mentre l’impegno politico agisce verticalmente sulle istituzioni che detengono il potere. Evidentemente anche ad un’associazione capita, e di frequente, di provare a influenzare le scelte pubbliche che riguardano la propria attività, ma la sua missione fondamentale rimane appunto lo svolgimento dell’attività in sé, non le scelte pubbliche che la riguardano.
Fatta questa distinzione tra le due dimensioni, si vede facilmente come esse siano contigue e intrecciate. Proprio per questa somiglianza si usa spesso dire, con ragione, che la partecipazione associativa sia una grande scuola di politica e di democrazia. Per dimostrarlo è sufficiente vedere le biografie di chi svolge attività politica, nelle quali quasi sempre vi è un passato di attività associativa.
L’associazionismo e la socializzazione politica
Di questo legame tra associazionismo e partecipazione politica parlò per primo il francese Alexis de Tocqueville, nella prima metà dell’800. Egli notò come questa attitudine associativa fosse particolarmente sviluppata nel contesto degli Stati Uniti e la mise in relazione con la solidità dell’impianto democratico della giovane nazione americana. Per Tocqueville però questo rapporto era biunivoco: in parte era l’ethos delle prime comunità di coloni inglesi a essere particolarmente orientato alla partecipazione associativa dal basso, in parte era proprio l’esistenza di istituzioni democratiche a educare i cittadini ad agire per via associativa, anziché passando per il “Palazzo”.
In questo senso, Tocqueville affermava che, nel giro di un tempo relativamente breve, l’abitudine associativa si sarebbe sviluppata in tutti i Paesi in cui si fosse introdotto il meccanismo democratico. E così effettivamente capitò di lì a poco in un’Europa che, dalla seconda metà dell’800 in avanti, vide un enorme fiorire di esperienze: dalle associazioni cattoliche alle leghe di agricoltori, dalle società di mutuo soccorso alle associazioni sportive e culturali.
Dunque possiamo dire che l’associazionismo sia effettivamente una scuola di democrazia, ma che a sua volta sia la stessa democrazia a essere una scuola di associazionismo.
Il rapporto tra queste due forme di partecipazione va però ulteriormente problematizzato. Diversi studiosi hanno per esempio notato come spesso la partecipazione associativa sia svolta da una minoranza ristretta di persone, dotate di un alto capitale culturale, ossia buon livello di istruzione, un alto capitale economico, ossia un buon reddito e un alto capitale sociale, ossia una buona rete di conoscenze.
In molti casi, è da questa minoranza di persone che emerge chi poi svolgerà attività politica. Ciò significa che, pur essendoci un effetto di socializzazione, cioè il fatto che nel partecipare alle associazioni si impari anche a fare politica, vi può essere anche un forte effetto di selezione, cioè il fatto che l’associazionismo e la politica peschino dallo stesso bacino di persone, lasciando fuori quelle con meno risorse e per questo più “periferiche”.
Da questo punto di vista l’Italia è un caso interessante. Già dagli anni ’60 gli studiosi americani Almond e Verba (1963) rilevavano come la partecipazione ad associazioni volontarie in Italia fosse più bassa rispetto a molti Paesi europei. Questi dati sono nella sostanza confermati ancora oggi (Biorcio e Vitale 2017), ma in più ci dicono anche che per chi partecipa alle associazioni è effettivamente molto più probabile diventare attivi politicamente (effetto socializzazione), così come è confermata la forte disuguaglianza sociale (più le classi medio-alte che quelle medio-basse), di genere (più gli uomini che le donne) e territoriale (più al centro-nord che al sud) tra chi partecipa e chi no (effetto selezione).
Ma è interessante anche vedere come sia cambiato il tipo di partecipazione in Italia nel corso degli ultimi decenni. Fino agli anni ’60 infatti essa era in maggioranza legata all’ambito religioso, tramite le numerose associazioni cattoliche o fortemente legate all’ambito politico, tramite il rapporto collaterale coi partiti di massa, quali la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista.
Questa vicinanza di molto associazionismo con i grandi partiti popolari ha facilitato la socializzazione politica dentro alle associazioni, seppur in una forma rigida e vincolata dalle logiche di appartenenza partitica.
Con la crisi dei partiti tradizionali, iniziata dalla fine degli anni ’70, questo rapporto di collateralismo e insieme di socializzazione alla politica si è assai indebolito, fino a produrre quella percezione di distanza tra le due dimensioni a cui abbiamo sopra accennato. Ciò ha indubbiamente reso più difficile l’osmosi tra i due tipi di impegno, per cui può capitare di essere bravissimi e motivatissimi attivisti sociali, coltivare anche un forte senso politico del proprio impegno e ciò nonostante non avere legami con il mondo politico e non riuscire quindi a riversare la propria esperienza nella dimensione politica.
Le nuove forme di partecipazione
Le vie della partecipazione, tuttavia, non si sono interrotte, ma sembrano piuttosto essersi canalizzate in altri percorsi, come un fiume carsico che scompare e poi ritorna in superficie, talvolta in modo del tutto inatteso. Infatti, negli stessi decenni in cui calava la partecipazione politica tradizionale, nascevano e si sviluppavano altre forme di partecipazione, dando luogo ad un nuovo tipo di associazionismo, inizialmente più flessibile, più indipendente, mobilitato su tematiche nuove come il sostegno alla fragilità, la lotta contro l’esclusione sociale, l’ambientalismo, il pacifismo, le nuove culture giovanili, le questioni di genere.
Dentro questa stagione si sono sperimentate nuove forme di espressione del proprio impegno, come indicava già in quel periodo Alberto Melucci (1984), nuove pratiche sociali e culturali, si sono aperte nuove vie di socializzazione politica in senso ampio, non più legate ai partiti tradizionali, ma canali più magmatici come i movimenti sociali e urbani di quegli anni. Da qui sono nate molte realtà del volontariato, della cooperazione sociale e internazionale, o dell’associazionismo culturale e ricreativo.
A loro volta molte di queste realtà, che oggi definiamo Terzo settore, hanno poi riscoperto un proprio protagonismo politico, cioè un modo di occuparsi di questioni pubbliche senza appoggiarsi a qualche partito di riferimento, ma diventando direttamente capaci di interloquire con chi fa le scelte pubbliche. Sono quindi nati verso le fine degli anni ’90 i Forum del Terzo settore, a livello nazionale e a livello locale. Così come sono state introdotte nuove forme istituzionali di partecipazione dell’associazionismo alle scelte pubbliche, la più importante delle quali è la legge 328/2000. La partecipazione politica, in questo senso, è stata vista come una parte della partecipazione sociale e non più come una dimensione esterna da delegare ai partiti. Nell’ultimo decennio, quella stagione di partecipazione diretta dell’associazionismo sembra essersi indebolita. I tavoli della legge 328 sono stati spesso abbandonati e i Forum del Terzo settore non sono riusciti a diventare il rappresentante di tutto l’associazionismo.
Altre forme di sviluppo dell’associazionismo sono invece all’ordine del giorno e in particolare la sfida dell’ibridazione con il mondo dell’impresa sociale e in generale con i mondi dell’innovazione sociale. La riforma del Terzo settore asseconda questa direzione di sviluppo, mentre sembra lasciare in secondo piano la dimensione più istituzionale della rappresentanza politica dell’associazionismo. La partecipazione sociale e politica, tuttavia, non pare destinata a scomparire neanche ora. Molti dei protagonisti dell’innovazione sociale e del nuovo welfare generativo percepiscono il loro impegno come mosso ancora da una passione civile e politica. E proprio questa dimensione partecipativa emerge spesso quando si osservano da vicino queste pratiche innovative. Non potrebbero allora essere le più autentiche esperienze di innovazione sociale una forma emergente di partecipazione sociale e politica?
GRANDANGOLO
Gabriel Almond, Sidney Verba
The civic culture. Political attitudes and democracy in five nations
Princeton University Press, 1963
Roberto Biorcio, Tommaso Vitale
Scuola di democrazia. Attività volontarie e partecipazione politica in Il valore delle attività volontarie in Italia
a cura di R. Guidi, T. Cappadozzi, K. Fonovic
Il Mulino, Bologna, 2017
Alberto Melucci
Altri codici. Aree di movimento nelle metropoli
Il Mulino, 1984
Matteo Bassoli, Emanuele Polizzi
La governance del territorio. Partecipazione e rappresentanza della società civile nelle politiche locali
Franco Angeli, 2011
Roberto Biorcio
Gli attivisti del Movimento 5 Stelle. Dal web al territorio
Franco Angeli, 2015