Quando far del bene fa bene
Il potere fisiologico dell’altruismo che potrebbe allungare la vita. Una serie di studi internazionali confermano che dedicare tempo agli altri è una “terapia” che riduce ansia e depressione. E aumenta il benessere
di Elisabetta Bianchetti
Il volontariato può migliorare la salute. E aiutare a vivere più a lungo. Quindi uno stile di vita sano, oltre una corretta alimentazione ed esercizio fisico, richiede anche solidarietà e altruismo.
Sono infatti numerose le ricerche internazionali che confermano questo dato. A cominciare dalla diminuzione dei fattori di rischio per le malattie cardiovascolari negli adolescenti (diminuzione di peso e del colesterolo) pubblicata su JAMA Pediatrics nel 2013 (rivista dell’American Medical Association) dal titolo “Effect of Volunteering on Risk Factors for Cardiovascular Disease in Adolescents”, fino all’indagine della Washington University di Saint Louis (Stati Uniti) che ha scoperto come i volontari possiedono migliori parametri sia fisici che psicologici rispetto a chi non fa volontariato.
Tesi che trovano un’ulteriore conferma in uno studio dell’Università di Exeter in Gran Bretagna, sempre del 2013, dal titolo “Is volunteering a public health intervention? A systematic review and meta-analysis of the health and survival of volunteers”. Questa ricerca evidenzia come le persone che praticano volontariato riportano livelli più bassi di depressione e più elevati standard di vita e di benessere rispetto al resto della popolazione. «La nostra indagine – afferma la ricercatrice Suzanne Richards – indica che il volontariato è associato a miglioramenti nella salute mentale, anche se è necessario un ulteriore lavoro per stabilire se il volontariato ne è in realtà la causa. Non è ancora chiaro, infatti, se i fattori biologici e culturali, spesso associati a una migliore salute e a una maggiore longevità, sono strettamente correlati con l’attività di volontariato. Penso che sia difficile da raccomandare come terapia per la depressione, ma se guardiamo alle persone in generale, è un’esperienza che raccomandiamo, in quanto se aumentiamo le opportunità di volontariato, più persone potranno potenzialmente trarne beneficio».
Anche la Carnegie Mellon University ha pubblicato una ricerca sugli effetti positivi del volontariato contro l’ipertensione negli anziani che colpisce circa 65 milioni di americani ed è uno dei principali responsabili delle malattie cardiovascolari, la principale causa di morte negli Stati Uniti. «Ogni giorno, impariamo che stili di vita negativi come la cattiva alimentazione e la mancanza di esercizio fisico aumentano il rischio di ipertensione», afferma Rodlescia Sneed, autrice dello studio. «Abbiamo voluto determinare se fare volontariato può effettivamente ridurre il rischio di problemi cardiovascolari. E, i risultati, ci confermano che negli adulti più anziani è un’attività che aiuta a rimanere in buona salute». L’indagine ha misurato a 1.164 adulti di età compresa tra 51 e 91 anni nel 2006 e poi nel 2010 la loro pressione arteriosa. I risultati hanno mostrato che il 40 per cento di coloro che, dopo il 2006, hanno fatto almeno duecento ore di volontariato all’anno non presentavano fenomeni di ipertensione rispetto a coloro che non avevano fatto volontariato. «Dato che le persone anziane subiscono transizioni sociali come il pensionamento, il lutto e la partenza dei figli da casa, restano con minori opportunità di interazione sociale – continua Sneed -. Partecipare ad attività di volontariato può offrire connessioni sociali che non potrebbero avvenire altrimenti. Il volontariato è quindi un’ottima attività per la salute fisica delle persone anziane, perché le incoraggia a rimanere attivi e a trascorrere più tempo fuori casa». Ovviamente, conclude Sneed, il volontariato non si può prescrivere come una dieta, ma è «da tenere lo stesso in considerazione per i suoi effetti benefici».
In un articolo del 2016 della rivista “Social Science and Medicine” dal titolo “Volunteering is prospectively associated with health care use among older adults“, il ricercatore americano Eric Kim spiega che ha introdotto una nuova voce, quella del volontariato, alla lista di buone prassi che i medici raccomandano a tutti i pazienti. Insieme a Sara Konrath, Direttore dell’Interdisciplinary Program on Empathy and Altruism Research della Lilly Family School of Philanthropy di Indianapolis (la prima scuola del mondo ad essere dedicata allo studio della filantropia, chiamata cosi grazie ai donatori che l’hanno resa possibile), hanno studiato 7.168 americani con un’età media di cinquanta anni. I due studiosi hanno scoperto che, in un periodo di due anni e più, quelli che facevano volontariato erano meno propensi a prendere raffreddori e a soffrire di colesterolo o di disturbi alla prostata. In più hanno provato che tali volontari hanno trascorso meno notti in ospedale, precisamente il 38 per cento in meno. «Ciò dimostra che i volontari godono di diverse condizioni di salute rispetto ai non volontari – osserva Konrath -. Ciò significa che prendersi cura degli altri, aiuta anche a prendersi cura di se stessi».
Quando Kim e Konrath hanno presentato questa ricerca a una platea di cittadini americani, la reazione iniziale del pubblico si è orientata allo scetticismo. I due studiosi ammettono che le persone non sane fanno meno volontariato proprio perché non sono in grado di farlo. Ma oltre a isolare i fattori socio demografici come l’età, il genere, la razza, lo stato, l’educazione, le finanze, Kim e Konrath hanno controllato anche i comportamenti salutari e l’integrazione, lo stress e i fattori psicologici, i fattori legati alla personalità e le malattie croniche. «Esattamente come qualsiasi ricerca sul fumo non è sperimentale; altrettanto lo sono gli studi sul volontariato – spiega Konrath -. Dopotutto non possiamo ignorare che tanta parte del contesto delle nostre vite quotidiane è incorporata nelle nostre relazioni. È innegabile che il numero e la qualità di tali relazioni influenza fortemente la salute. A riprova, per quanto abbia cercato a lungo in questi anni, non ho ancora trovato uno studio dove il volontariato non influenza positivamente la salute». Inoltre i ricercatori sottolineano che il volontariato offrirebbe nuovi possibilità di incrementare la salute e diminuire le malattie, con un beneficio anche per i costi della sanità. E i programmi di volontariato possono essere una valida alternativa. Nel solo 2012 64,6 milioni di volontari americani hanno prestato 7,9 miliardi di ore di servizio, con un valore economico stimato in 175 miliardi di dollari. Cifre impressionanti. Numeri che diventerebbero ancor più significativi considerando il risparmio in costi sanitari dei volontari.
Eppure l’ago della bilancia è la motivazione. Lo conferma un’altra ricerca di Konrath “Motives for Volunteering Are Associated With Mortality Risk in Older Adults” che sottolinea come le persone che fanno volontariato per sé stessi presentano un rischio di mortalità simile ai non volontari. «Solo le persone che fanno volontariato per ragioni altruistiche – spiega Kim – hanno ridotto i livelli di mortalità».
Quindi avere una forte e profonda motivazione è il fattore chiave, è l’elemento determinante. Senza una motivazione granitica, senza sposare una causa, l’impegno è soltanto fine a se stesso e, come tale, difficilmente porta benefici alla propria salute. Su questa lunghezza d’onda non vanno diemnticati gli studi del gruppo di studio sull’”altruismo efficace” del Mit di Cambridge . La ricerca fa notare che gli altruisti “veri” tendono a favorire programmi di larga scala efficaci, come per esempio procurare zanzariere per i mosquitos allo scopo di prevenire la trasmissione della malaria. Gli altruisti “veri” si identificano con progetti che hanno l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita di un gran numero di persone. Tutto ciò non è esaustivo, ma aiuta a chiarire perché l’altruismo effettivo è diventato un trend, mentre si sentono sempre meno persone che professano una passione per un altruismo inefficace. Infine Kim e Konrath lanciano un appello ai medici. «Dovrebbero raccontare alle persone i benefici delle attività sociali sulla salute, incluso il volontariato. Di sicuro la motivazione è fondamentale. Il volontariato lo si fa anzitutto con il cuore e poi con la testa. Per questo motivo, senza le ragioni del cuore gli effetti benefici del volontariato sul corpo e sulla mente sarebbero annullati. Ma i medici non devono esimersi dal dispensare tale suggerimento, perché sarebbe irresponsabile aspettare un’altra decade per scoprire esattamente cosa accade al fisico e alla tua mente quando fai del bene».