“Costruire case in tempo di muri” Simone, operatore SCU, racconta ciò che ha vissuto a Aveiro
Cosa significa partire per un incontro europeo di formazione non formale volto alla creazione di un’Europa più inclusiva, specialmente riguardo ai fenomeni migratori, in un momento in cui la guerra torna a coinvolgere il vecchio continente?
Simone Cordaro, operatore di Servizio Civile Universale presso il CSV INSUBRIA con il progetto “Le regole del gioco, cittadinanza europea, una pacifica laboriosità giovanile” ci racconta la sua esperienza sulla formazione che ha seguito in Portogallo e ci regala l’opportunità di fare preziose riflessioni sui temi dell’inclusione e della pace.
Se quasi tutti conosciamo il programma Erasmus, in pochi conoscono i Corpi Europei di Solidarietà e ancor meno persone hanno sentito parlare del progetto Erasmus Plus.
Se l’Erasmus “mainstream” consente a studenti universitari di frequentare periodi di studio all’estero, l’Erasmus Plus, suo fratello minore “d’arte”, permette a giovani e non solo, di partecipare a scambi di formazione della durata temporale più ridotta.
È all’interno di questo progetto che ho partecipato all’esperienza di formazione europea “Costruisci case in tempo di muri” un’iniziativa organizzata da Agorà Aveiro in Portogallo.
Lo scorso marzo, sono salito su un volo con destinazione Oporto, per poi raggiungere in treno la città di Aveiro, luogo che mi sarebbe presto entrato nel cuore grazie all’esperienza che stavo per vivere.
Quando Agorà Aveiro aveva organizzato la formazione informale, la guerra era qualcosa che i paesi europei si “limitavano” ad esternalizzare, ma purtroppo nel momento in cui il progetto effettivamente si concretizzava e io oltrepassavo il gate che mi avrebbe portato sul volo internazionale, l’Europa era ripiombata nell’incubo chiamato guerra e si rendeva disperatamente ancor più necessario pensare a decostruire muri, fisici e ideologici.
Da queste premesse, prendeva ufficialmente avvio l’esperienza formativa che ha accolto ventidue ragazzi provenienti da sette nazioni europee: Italia (3), Germania (2), Grecia (4), Ungheria (2), Croazia (4), Bulgaria (4) e Portogallo (3).
Nel corso dei dieci giorni successivi avrei appreso e sperimentato in prima persona e sul campo, diverse tecniche tutte focalizzate su quella premessa che guida l’idea di incontro dietro agli scambi Erasmus ed Erasmus Plus: se conosci, se ti avvicini all’altro, se ci dialoghi, se lo abbracci, diviene praticamente impossibile averne paura, odiarlo, combatterlo, e si concretizza così un processo che attraverso la condivisione, lo trasforma da diverso, in prossimo.
É stato partendo da questa visione che ad Aveiro abbiamo costruito una libreria umana all’interno di un centro commerciale, dove invece di leggere libri, conoscevamo e leggevamo persone.
Insieme abbiamo avuto l’occasione di sperimentare che soprattutto in relazioni strette, vicine e personali, l’esperienza del diverso e del fenomeno migratorio è percepita senza i filtri retorici e strumentali della politica o delle narrazioni mediatiche e in particolare se vedi le emozioni dell’altro, quei filtri politici e mediatici, perdono di efficacia, implodono.
Lo stesso concetto ha guidato la manifestazione di Guerrilla Marketing e la rappresentazione attraverso il Teatro degli oppressi dove le finalità erano di dare l’opportunità di toccare con mano, vedere, sentire, empatizzare, sensibilizzare la collettività verso la tematica dell’inclusione.
L’attività consisteva nel mostrarsi in una piazza cittadina incatenati e ammanettati, marchiati da scritte riguardanti categorie attraverso cui si disumanizza l’altro e stimolare nelle persone l’interrogativo se si possa continuare a passeggiare come se nulla fosse.
Alla stessa maniera, se in una rappresentazione teatrale viene portata in scena una condizione di oppressione e poi si chiede agli spettatori di esprimere la propria opinione su quanto visto e pensare a proposte per modificare la rappresentazione, si dà vita a un metodo di confronto, di scambio e di risoluzione dei conflitti partecipato e non violento.
Ciò mi ha fatto comprendere pienamente quanto oggi abbiamo bisogno di tutto questo e mi ha fatto pensare agli studi di un antropologo Figio-Tongano dal nome Epeli Hau’ofa, il quale scrisse che “la piccolezza è uno stato mentale”.
Hau’ofa si riferiva a quella condizione per cui il popolo dell’Oceania, credendo alle narrazioni dei colonizzatori si era ingannato di essere solo “isole in un mare distante”, quando invece era “un mare di isole”, un regno in cui l’oceano era strumento di connessione e non di divisione.
Grazie alle connessioni e ai legami tra gli abitanti, quelle isole smettevano di essere piccole divenendo immense.
Probabilmente dovremmo fare lo stesso sforzo concettuale e smettere di costruire muri, di rafforzare confini, di creare divisioni che ci rinchiudono in una piccolezza mentale ed umana; dovremmo trasformare le frontiere in un retaggio del passato, traslare un mondo di confini in un mondo di affini perché alla fine è semplicissimo farlo, basta far incontrare le persone, è sufficiente offrire le opportunità, poi sarà naturale oltrepassare i confini e abbatterli.
In soli dieci giorni il gruppo di una ventina di persone è divenuto unitissimo, si è condiviso tutto, con curiosità si domandava di usi, abitudini, modi di dire, di fare, o di gesticolare per esempio nel caso di noi italiani.
Così l’ultimo giorno, il momento dell’addio è diventato un arrivederci, perché tra il mare di lacrime che scorrevano per la separazione, organizzavamo già un nuovo incontro, forti del fatto che quando unisci, quando crei relazioni autentiche, poi è difficile spezzarle e quei legami rimangono.
Esattamente come diceva Hau’ofa, dobbiamo solo iniziare a riconoscere questi legami, a coltivarli e rafforzarli, perché un mondo inclusivo e in pace è un mondo che si conosce, al contrario le diffidenze e le paure germogliano facilmente se schermate dai confini.