Festa e festeggiamenti
“Il 14 maggio lo Stato d’Israele compirà 70 anni. Se per molti ebrei la memoria del maggio ‘48 sarà quella di una rinascita portentosa dopo la Shoà e un’oppressione subita per molti secoli, i palestinesi vivranno lo stesso passaggio storico ricordando con ira e umiliazione la Nakba, la “catastrofe”: famiglie disperse, esistenze spezzate, proprietà perdute, il tragico inizio dell’esodo di una popolazione civile di oltre settecentomila persone”.
Così scrivono 32 ebrei italiani facenti parte dell’Associazione Ebrei contro l’Occupazione (ECO), una esigua minoranza critica verso la politica coloniale dei governi israeliani. Nakba completata poi nel 1967, con la cosiddetta guerra dei sei giorni, in seguito alla quale i palestinesi persero veramente tutto, Gerusalemme Est, la Cisgiordania, Gaza, territori occupati dagli israeliani e tuttora occupati militarmente, in spregio delle risoluzioni delle Nazioni Unite. Nakba vuol dire catastrofe: i palestinesi hanno perso tutto, la terra, la libertà, l’indipendenza, uno stato, diritti e dignità.
Grandi feste dunque per il settantesimo della nascita dello Stato di Israele, rese ancora più solenni con il trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, voluta da Donald Trump, proclamata già dalla Knesset capitale unica e indivisibile ed eterna di Israele, nel 1980, nonostante la Risoluzione 181 delle Nazioni Unite stabilisce altro statuto per la città ( “La città di Gerusalemme sarà stabilita come separatum corpus in uno speciale regime internazionale ed è amministrata dalle Nazioni Unite”).
Festa da una parte (anche con la partenza da Gerusalemme del Giro d’Italia) e lutto dall’altra. Perché la Nakba ancora continua ogni giorno. Con le uccisioni di palestinesi in Gaza (52finora) e le migliaia di feriti e mutilati, con le demolizioni delle case, il furto continuato delle terre palestinesi, gli arresti e le carcerazioni, i checkpoint dappertutto, il muro, le leggi separate.
Bisogna distinguere la festa dai festeggiamenti. La festa è di tutti, c’è quando tutti sono contenti. Se soltanto alcuni sono contenti e altri no (perché esclusi, dimenticati, sono stati sconfitti, sono afflitti dai più svariati malanni e impedimenti) non si può chiamare festa, ma festeggiamenti, che della festa sono una parodia. “Se conoscessi qualcosa di utile alla mia patria, ma dannoso all’Europa, oppure di utile all’Europa e pregiudizievole per il genere umano, lo considererei un delitto… Se conoscessi una cosa utile alla mia nazione, che però fosse deleteria per un’altra, non la proporrei al mio principe, perché prima di essere francese sono un uomo” . Così scrive Montesquieu nei suoi Pensieri. Nobili parole, che in politica non trovano né ascolto né luogo. “Una feroce forza governa il mondo e fa chiamarsi diritto. Non resta che far torto o patirlo”, scrive Manzoni nell’Adelchi. L’ essere stati vittima non ci rende immuni da diventare carnefici; l’aver sofferto tanto non rende più sensibili alla sofferenze altrui; aver patito torti no impedisce di farne ad altri. Lo avvertiva e lo scriveva già Primo Levi. La condotta nei confronti dei palestinesi dei governi israeliani e della grande maggioranza degli ebrei israeliani (e non solo israeliani) che li sostiene, ne è la trista conferma. Ma di conferme ce ne sono nel mondo tante, tante altre.
Non resta che far torto o patirlo, dunque, come dice Adelchi? No, resta la possibilità di fare del bene, di praticare la giustizia e l’amore del prossimo, come dimostra lo stesso Manzoni ne I Promessi Sposi.
La riflessione di cui sopra è di Luigi Fioravanti, presidente del Centro di Documentazione Rigoberta Menchù di Sondrio.
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